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Nazim Comunale, da “Aguaplano”

Nazim Comunale. Foto di ©Nicola Malaguti

 

AGUAPLANO (TRACCE PER UN’INDAGINE SU UN DIROTTAMENTO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO)

(per Roberto Campoli, e per tutti noi dirottati)

“Gira pilota
recuperiamo il cielo
ad alta quota”
Aguaplano, Paolo Conte

La notte tra il sette e l’otto marzo duemilaequattordici
un Boeing settesettesette-duecento
partito da Kuala Lumpur
e diretto a Pechino
con duecentotrentanove persone a bordo
scompare nel nulla.

Allo stato attuale
delle indagini
si ritiene certo il dirottamento.

Appurato il dirottamento
rimane da capire
se si è trattato di un atto lucido
da parte dei piloti
o di un’azione terroristica
che li ha costretti
a virare.

È noto
dai deboli segnali
captati dai satelliti
che l’aereo ha volato
altre sette ore
dopo aver interrotto le comunicazioni.

Il velivolo
dopo l’improvvisa,inattesa
virata a ovest
avrebbe potuto seguire
due percorsi profondamente diversi:
a nord-ovest
lasciando in alto a destra le foci dell’Irawaddy
sorvolando Thanjavur in India
resistendo il magnete dell’equatore per
oltrepassare i fiumi Krishna e Godavari
il deserto del Thar
Rawalpindi
l’Hindukush
il Picco del Comunismo
e i suoi 7495 metri a incombere su
Taskent, capitale dell’Uzbekistan
lambendo la guancia sinistra
del deserto di Taklimakan
per poi puntare
il grande nulla interiore
che anche Leopardi cantò.

Poi ancora a ovest
la Steppa della Fame
alle porte del Bassopiano Siberiano Occidentale
un dito sulla mappa
prima della porta del Turgaj
al di qua degli Urali
dove comincia la parola Asia.

Oppure
puntare a sud-ovest
verso il centro dell’Oceano Indiano
dove l’acqua e le sue vastità
sovrastano geografie, nomi.

Meta possibile
le isole Gloriose
nell’arcipelago delle Comore
al largo delle coste del Madagascar.

Ma il Tropico del Capricorno
è una sirena e chiama
chiama
perditi, dice, perditi
dal bordo dell’Abisso Diamantina
da quei 6857 metri di vertigine azzurra
la sirena chiama e dice perditi.

Perditi,dice
e la bussola è una macchina morbida
e allora dissolversi
inabissarsi
sparire
lasciare chi aspetta
ancorato a terra con la voce rotta
senza difesa
contro la logica
l’attesa
contro ogni prevista retorica del cuore
contro la sua maldonata lotta
la sua bellissima guerra.

Le isole de la Possession
stanno giusto al limite dell’ Asia Fisica
a pagina ottantatre
in questo atlante del millenovecentottantaquattro
dove ancora non esistono
l’Ucraina, l’Eritrea
ma già s’intravede la luce della ripetizione
della storia ciclica.

Tocco il tomo dov’è mare fondo
immagino l’affondamento
il tormento
la gloria del disastro
dov’è più blu.

Le isole del possesso più giù
sono sempre state lì
sotto il quarantesimo parallelo
disabitate, fertili
inconoscibili, intatte
come dietro un velo.

La seconda rotta
resta la più plausibile
e l’India ieri ha sospeso le ricerche.

Scenario probabile:
l’aereo ha puntato la vastità dell’oceano
dove non arriva nessuna flotta
fino all’esaurimento del carburante
dopo una azione deliberata di cambiamento di rotta.

Scompare un aereo
scompare l’amore.

Necessario trovare la scatola nera
tradurre l’indicibile, lo scoramento
far brillare la luce della ferita
per capire l’entità vera del danno
le perdite esatte
e la quantità precisa e il momento
il momento in cui la vita ha smesso
di essere possibile, vera.

Le ricerche al momento
si stanno effettuando in ventisei paesi.

Per ritrovare i resti dell’aereo Rio de Janeiro-Parigi
scomparso nel duemilaenove
e affondato nell’Oceano Atlantico
ci sono voluti due anni.

Le indagini sono sospetti, prove.
Per ora abbiamo un dove
non un altrove.

Nell’assenza di certezze, fioriscono le ipotesi.

Si scava nella vita del comandante per
capire le sue idee, i suoi progetti
se nell’infanzia avesse preso botte.

Alla torre di controllo l’ultima voce del pilota
quei pochi minuti neri
prima dell’estasi della distanza
dopo aver spento il comando manuale dell’aereo
prima di varcare la soglia dell’ultima stanza
quella davvero vuota
dopo aver deciso di sparire con tutti i passeggeri:
“Qui tutto bene.Buonanotte”.

#

Le dieci di mattina.
Il cielo è un catino.
Questo cielo padano plumbeo
apparecchia un risveglio smagato
senza manfrine.

Ci sei tu
stropicciato e in mutande
i piatti nel lavello
le cose mute
e la lisca di un albero
allampanato dietro la finestra
sentinella del bello.

Amore sono due tazzine sporche
una schiuma di voci che rimbalza
dietro la nuca
e ridere
mentre si aprono le tende
su questo mondo allagato.

Nel mio quartiere ogni porta
è il coperchio di un’urna,
ogni cosa un acquario coperto da un telo nero:
passasse un vecchio, o un bambino
capitani di questo vascello
del nulla vero.
E invece mi accontento di un cane
che abbaia per dire
no, non è un sogno, è tutto vero.

Tic,tac
tic,tac
tic,tac.

Il metronomo imperfetto della pioggia
mi distrae dai geyser del mio corpo
da questa uggia.

Mi alzo e vado al pianoforte.
Tenterò un pugno di note
per blandire la morte.

#3

IO SONO QUI

Preziosi arcani, il veleno delle foglie
color limone
e l’algebra indicibile
degli incontri, dei disincontri.

Una creatura scalza
seppe attraversarlo
ed ogni volta era la prima:
quel bosco
ora sfuma nelle nebbie del mito.

E allora adesso, dopo silenzi, alluvioni
arcobaleni e chilometri
dopo l’eclissi del cuore
oltre le ellissi della lingua
siamo di là, foto sbiadite
geometrie disperse
sotto altri cieli
protetti da nuvole diverse.

Perché donna è bivio nel verde profondo
sentiero a salire, scoiattolo
ombra ad allagare il mattino
acqua, aria finissima, onda
madre-miraggio, disapparire.

Oggi sto chino
su pagine perfettamente bianche.

Tutte tranne questa.
E qui scrivo:

Uomo è ombra ,donna è orma.

Perché uomo è
pietra sbrecciata
aghi di pino
foga luminescente tra i rami,
sete,
inciampare nella selva che è luogo e simbolo,
cadere, stare fango
rialzarsi
verdissimi germogli e alfabeti di clorofilla
contro le sorridenti armate del vento
spade di legno a combattere
la ferocissima felicità del tramonto
sciocchi soldatini di marzapane
che incappano negli stessi errori
gli ultimi del Novecento.

Donna è
secoli di cura
allattare i piccoli
e il pomeriggio
sentire che la vita cresce
nasce.

Uomo è
passi nella selva
morsi e affanni
sangue alle labbra
armi spuntate
sillabe opache
e paura.

Ho speso il mio soldo di luce
per salire le tue ripide, bianchissime strade
amica mia
per indovinarti.

Ho cercato nei tuoi occhi
il colore delle mie domande.

Forse non ho capito, eppure
ne sono certo, per quanto non sappia cosa significhi:
ti amo, ti amerò, ti ho amata.
Questo è il mio impronunciabile saluto.
Perché ci sono cose che non avranno più parole
e il miele che fu
dormirà in anfore antiche
nelle cantine dove riposano il vino e la memoria
perché io andrò, tu andrai
e avremo passaporti e timbri per paesi e felicità diverse.
e forse
(forse)
un giorno
una goccia rappresa della gioia che sentimmo quella volta
riderà,
riderà
nella luce
di un pomeriggio europeo
riderà
nello spigolo in basso di quella scala
che ora scendiamo soli
riderà
nel riflesso di altre acque
dove credendo di vedere
volendo ancora intravedere
per un momento
il pesce fugace, la forma del tuo profilo
io sarò la lacrima che cade dal ponte
tu sarai
voce intatta
sarai finalmente cielo
il cielo che eri
il cielo dove ancora sei
e luce, luce, luce dappertutto
luce nel volo degli uccelli
che nessuno ferisce
aria , aria, aria
e un’eco di voce di déi.

#
Seta per le onde arabiche
il legno nomade
delle barche strabiche
la muta fatica dei pescatori
e un uomo che caca
mentre guarda accucciato il mare
il pomeriggio languido
si slaccia l’ultimo bottone blu
e lascia intravedere il seno e la notte

come imparare a memoria
la regola che sancisce il punto esatto
dove comincia l’onda
o l’attimo in cui il sole è un tuorlo intatto,
prima che le bave del tramonto
impazziscano nella tazza del cielo,
quando il cerchio si chiude

e ancora
senz’ancòra

seta per le onde arabiche
il legno nomade della barche strabiche
meta della barche arabiche
la seta nomade delle onde strabiche

FRANCESCO VA IN UNIONE SOVIETICA

Cittadino del cielo,
ambasciatoredel mondo delle creature sottili,
un martedì mattina
di uno spicchio di secolo fa
Francesco Vicari
nemmeno trentenne
guerrescamente felice
colto dalla febbre delirante del fare

Icaro
tra Scilla e Cariddi

si mette una camicia fresca di bucato
sigaretta
caffè
sigaretta
un sospiro
e un’altra sigaretta

poi
piglia e va alla stazione dei treni di Palermo.

Destinazione Mosca,
dove lo attende un mondo giusto
di uomini e donne uguali,
dove sarà tregua
dalle delusioni di un occidente tondo
che non se ne fa nulla
della prigionìa di Gramsci,
del centralismo democratico di Lenin,
della sobrietà e dei soviet,
dei comizi di Enrico Berlinguer,
dell’Unità distribuita alla domenica mattina.

La sete di Francesco
è una voglia di giustizia
che non si placa e brucia le tempie.

Cristo
crocifisso
ai suoi sogni di libertà
nonostante tutti quei secoli sulle spalle
Francesco ride
e vede il film del mondo
passare dal finestrino, dall’oblò dello Sputnik
che lo sta portando
sotto un altro cielo.

Sotto le arcate della grande Madre
dove si riuniscono i folli e i giusti
tu, Francesco, sei stato chiamato
e lo sai, non puoi mancare.

Per questo il controllore
che ti ferma a Trieste
non capisce,
non può capire
che tu devi andare
anche se non hai il biglietto,
che il tuo viaggio
è così socialista e speciale,
che tu segui una rotta tutta tua
lontanissima e celeste.

La tua barba novecentesca
dovette dare rifugio
a ben altri uccelli,
e non sarà per questo intoppo
che ti scoraggerai.

Il tuo è il coraggio degli scalzi,
di chi cammina
prendendo in controtempo il giorno,
di chi sorride sempre ai bambini
perchè viene dal loro regno,
di chi siede con gli ultimi
e abbaia alla luna
assieme ai cani.

Tu aspetterai il prossimo treno,
in arrivo sul binario di domani.

Ogni giorno ora parte da Palermo un diretto per Mosca.
Come potrebbe essere altrimenti?

Compagni,
tutti in vettura!

E allora ti vedo
buttare la sigaretta
sciabattare
bestemmiare
affannarti
poi tendere la mano a un bambina piccola e muta
-che fatica salire in carrozza-
e mentre la luce
si accanisce in capriole
chiudere gli occhi buoni
e tornare
per sempre

al mondo
delle cose immobili.

 

Nazim Comunale (Guastalla, 1975) è critico musicale (Il Manifesto, Il Giornale della Musica, Alfabeta2, The New Noise, SentireAscoltare) e teatrale (Krapp’s Last Post), maestro elementare, viaggiatore e musicista ( Caboto, Nazeem, Iran). Ha pubblicato Aguaplano (autoproduzione, 2015), Lei Oceano (Terra di Ulivi, Lecce, 2017) ed è in uscita per le Edizioni San Lorenzo di Reggio Emilia la sua terza silloge, Chiamala febbre, con una nota di lettura di Giuseppe Caliceti. Sue poesie sono state pubblicate su collettive di Pendragon Edizioni, LietoColle e in rete su Interno Poesia, IPoet e Versante Ripido. Nel 2018 ha partecipato alla raccolta Non ancora silenzio, libro d’artista uscito per i tipi di NMZ Edizioni di Ravenna.


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