Marco Onofrio, Diario di un padre innamorato, Roma, Città Nuova, 2016, pp. 88, € 8,00
di Ugo Gentile
Diario di un padre innamorato di Marco Onofrio, edito lo scorso luglio da Città Nuova, è un libro breve e fulminante che dovrebbe avere la più ampia diffusione, e il successo che merita, per i valori universali di cui sa farsi veicolo, sintesi, robusta incarnazione narrativa. Un uomo quarantenne diventa padre e, trasformato per sempre dalle emozioni provate, decide di rivivere e sublimare la sua esperienza in una specie di “parto simbolico”: la paternità consapevole dà vita a una “lettera aperta” destinata alla memoria della figlia; memoria futura, ovviamente, dato che essendo piccina non è ancora in grado di leggere la trascrizione poetica che il papà, perdutamente innamorato, ha compiuto del suo venire al mondo – fatto naturale ma non per questo meno prodigioso –, dalla scintilla del concepimento alla storia quotidiana dei primi tre anni. Il miracolo della nascita di un nuovo essere consente allo sguardo umanissimo del padre di slargare gli orli del mistero, penetrando negli abissi dell’universo. Il racconto fornisce così, in filigrana, “occasione” di un dialogo metafisico con il Vuoto da cui tutto origina e a cui tutto fa ritorno; infatti le riflessioni a cui la paternità costringe, per così dire, l’autore pongono su un piano di equivalenza simbolica i due momenti cruciali, iniziale e conclusivo, della vita. La nascita è opposta e complementare alla morte: in entrambi i casi ruota la “porta girevole” del mistero in cui siamo immersi e di cui siamo impastati, a diversi gradi di coscienza. Ecco perché questo padre-poeta, così dolorosamente consapevole della propria gioia, ha il sacro terrore del parto, cui preferisce non assistere: «L’infermiera indicò un’incubatrice mobile al centro del corridoio. Il cuore mi scoppiava, ero come in trance. Ripercorsi tutta la mia vita, in quei pochi passi verso te». Onofrio sfonda la quarta parete della scrittura e parla con una sincerità tale da non consentirgli di eludere i limiti, le paure, le preoccupazioni e le ombre interiori, prima durante e dopo il “lieto evento”. Eppure la genitorialità trova le sue strade per rivelarsi – anche dal punto di vista paterno – un’esperienza spirituale bellissima, che mette in contatto con le sorgenti invisibili della creazione e cambia per sempre lo sguardo. Il padre rinasce insieme alla creatura che nasce: raccoglie tutto il suo passato di uomo e lo proietta in avanti per imparare ad «essere futuro» favorendo quello della figlia. L’amore oblativo del genitore si traduce in «transito di luce». Egli, così, rinnova la sua fede nella vita. Il dono della paternità, vissuta tanto intensamente, è lievito di una stupenda trasformazione: apre alla scoperta della scintilla divina che abita in ognuno di noi. Con questo «amore impossibile da dire» Onofrio accende il fuoco delle pagine, dando vita a un racconto dolcissimo e struggente, che commuove senza mai smielare poiché sorretto dalla forza stessa della sua poesia.
©Ugo Gentile
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Tre brani dal libro:
Fu tua madre a darmi l’annuncio, prima ancora di esserne cosciente. Ti vidi arrivare dentro lo splendore nuovo dei suoi occhi: mi ricambiavano la certezza che eri già tra noi, che ti stavi agglutinando. Un corpuscolo follicolare che si sviluppava, dentro la sua nicchia cosmica, avvolto dal tepore della vita: giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto. Era già disceso l’angelo tra noi. La sua presenza ectoplasmatica si era misteriosamente sovrapposta al liquido impuro delle nostre iridi. La sua ala ci aveva silenziosamente sfiorato la fronte, come in un cenno di assenso, con la forza di un segno liberatorio.
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Nascesti alle 9 e 50 minuti. E tua madre poté subito vedere il tuo bellissimo volto, roseo e rotondo, trafitto dagli occhietti luminosi. Lei aveva percepito con tenerezza indicibile il “crac” liquido del tuo emergere alla luce. E poi, dopo qualche istante, il suono del primissimo vagito. E ora, lì sul fianco, la smorfia quasi sorridente del tuo pianto. Il tuo primo assaggio del pianeta: aria, spazio, materia, luce. Ti avvolgeva – con il trauma del suo impatto bruciante – il guscio della nostra condizione. Quasi una nuova placenta, il cristallo fragile del mondo.
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Ricordo benissimo la prima volta che hai visto il mare. Era un giorno di fine giugno, verso le otto di mattina. Ti portavo in braccio, scendendo dall’albergo sulla spiaggia. Eri tutta abbandonata alla mia spalla destra, con gli occhi socchiusi ma sveglia. A un tratto li apristi per guardare nella direzione da cui proveniva lo scroscio delle onde e lo schiamazzo gaio dei bagnanti. E sorpresi il tuo sguardo che s’illuminava di stupore, mentre indicavi la distesa azzurra. E poi vidi affiorare sulle tue labbra dolcissime la gioia di un sorriso confidente. Quello era il mare, amore mio, quello era il mondo. Ah, se potessi avere nei miei occhi almeno un brivido di quello sguardo! E abitare la metà di quel sorriso!