Cento anni fa, il 25 febbraio 1917, nasceva a Manchester Anthony Burgess. Per ricordarlo, proponiamo oggi la lettura di un estratto da Una scala per l’eternità. Su ABBA ABBA di Anthony Burgess di Fabia Scali-Warner e uno dei settantadue sonetti di Giuseppe Gioachino Belli che Burgess tradusse in inglese e inserì nel romanzo nel quale l’autore fece incontrare John Keats e G.G. Belli.
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Accordi Preliminari
“Christ pendebat from his cross and cried ABBA ABBA. Now John knew that this was Aramaic for father father, but he knew better that it was the rhyme scheme of a Petrarchan sonnet octave.” (1)
Pur prestando ad una tale forte affermazione l’attenzione che merita, ABBA ABBA può ciononostante apparire ad una prima analisi semplicemente uno dei molti romanzi pubblicati da Burgess nella sua lunga carriera; tuttavia la natura stessa della questione che serpeggia tra le righe del romanzo suggerisce che l’opera possa meritare una particolare attenzione.
La questione cui si è accennato è il velato dibattito che corre tra i due poeti protagonisti del romanzo, John Keats e Giuseppe Gioachino Belli, sulla natura dell’arte.
A rendere implicito il confronto fra i due è l’impossibilità di una comunicazione diretta, sia banalmente per la necessità di un interprete, sia più sottilmente per le differenze fondamentali riguardanti la formazione dei due poeti; tuttavia proprio in considerazione di questa incomunicabilità di base assume maggiore valore il loro pervenire a conclusioni affatto simili, per quanto in modi e tempi differenti.
In entrambi la struttura metrica del sonetto assume il valore di verità trascendente; delineando dunque una rivendicazione precisa non solo dell’alto valore della verità poetica, ma anche della componente formale della poesia.
In particolare, analizzando i richiami e le metafore di cui è costellato ABBA ABBA, l’universalità poetica della forma del sonetto appare garantita dalla sua intrinseca musicalità: la musica è lo spirito mai nominato che anima tutto il romanzo.
Burgess era, del resto, un compositore professionista, per di più non alieno a forme di contaminazione tra le due arti, come dimostra Napoleon Symphony (2), opera in cui l’autore “traduce” in romanzo l’Eroica di Beethoven, originariamente dedicata proprio al Bonaparte; tenendo conto della personale esperienza artistica dell’autore si possono facilmente interpretare come simbolici e non casuali numerosi elementi ricorrenti in ABBA ABBA.
L’alternanza di lingue, dialetti ed accenti, i rintocchi delle campane ed il mormorio della fontana di Piazza di Spagna: tutto risponde ad un’esigenza precisa, strettamente legata al valore intrinseco ma trascendente dei singoli suoni evocati.
Nel grande concerto della produzione letteraria di Burgess, ABBA ABBA si configura come una mirabile scala cromatica; sondando tasto per tasto le capacità strutturali delle lingue e delle molteplici voci della musica naturale, l’autore scompone analiticamente elementi propriamente poetici per poi ricomporli in un quadro unitario e coerente; quadro che tuttavia in ultima istanza risulta in grado di trascendere la semplice somma dei suoi componenti, a patto che durante la ricezione si riescano a cogliere le allusioni ed i rimandi insiti nei particolari della narrazione propriamente detta.
Naturalmente gran parte del fascino di una scrittura così fortemente allusiva risiede nell’ambiguità e nella molteplicità dei significati che le si possono attribuire; anche in questa caratteristica l’ispirazione burgessiana sembra ricollegarsi alla musica, la più misteriosa tra le arti, considerata da esperti e profani ora espressione dei sentimenti, ora dell’ineffabile, ora di idee prettamente musicali.
Nell’analisi di ABBA ABBA capita non di rado di trovarsi di fronte a veri e propri ossimori interpretativi; tuttavia lungi dall’essere meri elementi retorici o giochi intellettualistici questi contrasti rivelano (e quasi epifanizzano, per usare una terminologia joyciana, autore quest’ultimo molto caro a Burgess) le contraddizioni naturali e necessarie delle realtà più profonde.
“Here lies One Whose name was writ in Water” (3). Così recita l’epitaffio di Keats, sull’austera pietra tombale del cimitero Protestante di Roma. Uno sconsolato riconoscimento della vanitas dell’esistenza, attività poetica inclusa, si potrebbe pensare; eppure ecco che Burgess lega il riferimento all’acqua al mormorio incessante della fontana di Piazza di Spagna, che quotidianamente accompagnava con il suo canto la giornata di Keats, durante il soggiorno del poeta nel piccolo appartamento lì accanto.
In ABBA ABBA Keats parla con l’amico Severn della propria malattia, dell’approssimarsi della morte: “But at the end there is only this I, shapeless and without memory unless I consign it elsewhere. So for the moment I join it to the I of that singing water in the piazza and lose even my name. Or, if you will, write that name on water and hear the water gurgle on uncaring singing I, I, I.” (4)
Il nome potrà anche scomparire, ma il canto eterno dell’acqua rimane; del resto in tutto il romanzo il gorgogliare della fontana diviene il simbolo della musica naturale ed universale che soggiace alla realtà ed è presente in tutta la vera Poesia.
Burgess offre quindi un’interpretazione ossimorica dell’epitaffio del giovane poeta inglese, trasformando in un’orgogliosa rivendicazione di universalità poetica ciò che in apparenza si struttura come estrema professione di umiltà dinanzi all’infinito ed incommensurabile.
Naturalmente risulta fondamentale per l’accettazione di una simile ipotesi il riconoscimento del valore simbolico attribuito al mormorio della fontana, e la considerazione del ruolo di tramite poetico tra l’uomo ed il trascendente svolto, nella poetica burgessiana, dalla musicalità dell’enunciato; se non si stava appellando (al pari del Cristo sulla croce sognato dal suo Keats nel delirio della malattia) alla struttura eterna della musica come fonte di verità, universalità ed eternità poetica, cosa indusse Burgess a far incidere sulla propria pietra tombale proprio “ABBA ABBA”?
Capitolo Primo
Preludio e Notturno
Già ad una prima analisi ABBA ABBA rivela una narrazione strutturata principalmente intorno a due poli di aggregazione; da un lato il giovane, romantico e malato John Keats, dall’altro l’ombroso Belli, con tutte le sue contraddizioni di poeta e di ufficiale pontificio.
A farsi tramite tra i due è Giovanni Gulielmi, presentato nella seconda parte del romanzo come il progenitore della famiglia Wilson (cui Burgess apparteneva, dal momento che il suo nome completo era John Anthony Burgess Wilson); tuttavia, considerato il ruolo assunto dal personaggio, pare opportuno interpretare questo particolare più come un elegante espediente con cui rivendicare la paternità poetica dell’immaginario incontro, che non come indice di una volontà di scrivere l’epopea della famiglia Wilson.
La parentela serve d’altronde all’autore come trait d’union fra la prima e la seconda parte del romanzo, dove Burgess presenta le sue traduzioni dei sonetti di Belli attribuendole ad un certo John Joseph Wilson, suo bizzarro alter ego.
Gli eventi narrati si svolgono tra il 1820 ed il 1821, precedendo di diversi anni il periodo di grande produzione in romanesco da parte di Belli: ciò consente a Burgess non solo di presentare nel suo personaggio lo sviluppo progressivo di una precisa poetica, ma anche di ricollegarsi, seppur velatamente, all’antico tema della traditio lampadis: la fiaccola di Keats si spegne con la sua prematura morte, si profila all’orizzonte l’astro nascente della tormentata attività poetica di Belli.
1. Il risveglio di Dioniso
In ABBA ABBA la poetica tende sempre a prevalere sull’uomo; la poesia di Belli compare nel romanzo prima del personaggio, e senza che questi venga direttamente nominato.
Nel corso di una conversazione sulla natura del romanesco Gulielmi consegna a Keats un sonetto caudato di natura oscena, scritto da un suo amico poeta che successivamente, preso dal rimorso, avrebbe distrutto l’originale; solo in un secondo tempo viene rivelata la paternità belliana dell’opera, ma l’episodio del sonetto stracciato e della copia miracolosamente salvata dalla furia iconoclasta dell’autore riassume mirabilmente sia il rapporto sempre conflittuale del poeta con la propria musa, sia la natura “esoterica” che assunse la fruizione della sua opera, pubblicata postuma e contro la volontà dell’autore.
Importantissimo ai fini della comprensione del rapporto del personaggio Belli con la sua futura produzione poetica risulta il dialogo che si svolge tra il poeta romano e Gulielmi nel penultimo capitolo di ABBA ABBA; nella sua conclusione viene celebrata la nascita di un progetto riguardante una raccolta di sonetti in romanesco.
Gulielmi, di ritorno da Milano, si reca a casa dell’amico, portando la notizia della morte di Carlo Porta; Belli si dimostra sinceramente dispiaciuto per la scomparsa di un grande poeta, manifestando poi un moto di fastidio per la definizione di Porta come “poeta dialettale”.
Gulielmi ascolta la tirata sul dialetto per rivolgersi poi a Belli con voce nuova, esortandolo a prendere il posto di Carlo Porta, il posto di un grande poeta in dialetto che parla delle cose e delle voci vere e vitali della gente; ed è qui che Belli esprime quanto sia tentato dall’idea, arrivando infine a disegnare con estrema coerenza il proprio contrastato profilo di uomo, di ufficiale del papato, e di poeta: “Belli on the side of the State, gelder of thought and speech in the service of stability. Belli at nightfall, saving his reason through scurrillity. All literature is subversive somebody said. Voltaire? A repressive office will force me into a métier of subversion. I acknoledge myself to be a split man.” (5)
Poco dopo, alla domanda di Gulielmi su cosa sente di dover scrivere, la sua risposta é sbrigativa, ma precisa: “Stuff for tavern recitation with the doors closed. Totally unpublishable.” (6)
Mentre i due discutono sgranocchiando biscotti e sorseggiando del Madeira, Gulielmi racconta a Belli di una conversazione avuta con Keats, e del sogno di questi di scrivere un poema in sonetti sull’eternità di Roma; tuttavia, secondo Gulielmi, se anche il giovane inglese non fosse malato e morente, non sarebbe comunque l’uomo adatto ad una simile impresa: Belli ribadisce che un simile compito non può essere portato avanti da un forestiero, pur riconoscendo in questo frangente il talento di Keats.
Ancora una volta Gulielmi gli risponde con una chiara ed accorata esortazione: “This work is reserved to you. You depict unchanging Rome through its many voices. You write two thousand, three thousand sonnets. All about dirty cynical suffering rejoicing Rome, and all in Roman voices. Not your voice, not that. Their voices. Why should that make you feel guilty?” (7)
Eppure Belli si sentiva in colpa, nonostante l’andamento altalenante dei suoi sentimenti al riguardo; Burgess rappresenta in potenza il poeta che, nella lettera di introduzione alla sua raccolta di sonetti, capovolgerà la sua excusatio sulla trivialità della materia trattata in una rivendicazione della spontaneità dei suoi soggetti: i popolani sono privi di arte e di educazione, scrive Belli, ma poi conclude: “Vero però sempre mi par rimanere che la educazione che accompagna la parte ceremoniale dell’incivilimento, fa ogni sforzo per ridurre gli uomini all’uniformità: e se non vi riesce quando vorrebbe, è forse uno dei beneficii della creazione.” (8)
Per Belli la plebe urbana è corrotta ed ineducata, al di là di qualsiasi redenzione morale, ma trova la propria redenzione poetica nella sua primitiva libertà priva dei condizionamenti che appiattiscono l’individualità nella selva di convenzioni del vivere civile; per l’accademico, poeta in lingua e per di più censore per conto di Santa Madre Chiesa, l’immersione nella materia quotidiana, volgare ed anche oscena della vita della plebe costituisce un’esperienza sconvolgente, allo stesso tempo terrificante e liberatoria: terrificante poiché la familiarità e la naturalezza delle voci dialettali con la loro spontanea musicalità lo trascinano pericolosamente vicino ad un’immedesimazione e consonanza di vedute con i miserabili che descrive; liberatoria perché permette al Belli più scanzonato e derisorio di esternare la propria verità sovversiva, avvalendosi della libertà di parola garantita da un contesto che non teme di mostrarsi autenticamente “basso”, triviale ed osceno.
Questa attrazione gravitazionale verso la sensibilità primitiva del popolo è per Belli una spinta irrefrenabile, da dover emendare come una colpa, salvo poi ricadere nella tentazione di lasciarsi andare alla vitalità dell’animismo pagano della plebe. L’aspetto più interessante di tutto ciò risiede tuttavia nel fatto che la poetica di Belli finisce per avvicinarsi molto a determinate scelte stilistiche dello stesso Burgess.
Consideriamo per un istante la sua opera meglio conosciuta, A clockwork orange (9) ; gli aspetti che legano questo romanzo alla raccolta di sonetti di Belli sono molteplici. Formalmente, l’uso della lingua è affatto similare; Burgess dovette ricorrere all’invenzione del nadsat (10), mentre il poeta romano aveva la possibilità di avvalersi del dialetto della propria città, ma l’intenzione ed il fine sono i medesimi.
Procedendo poi ad un’analisi dei contenuti, in entrambe le opere si riscontra una critica radicale della società, e la stessa sfrenata violenza di Alex deriva dalla mancanza del “cerimoniale dell’educazione” di cui scriveva il poeta romano, accostando così la sua figura agli innumerevoli popolani senza nome dei sonetti di Belli.
L’autore, anche in ABBA ABBA, non ricusa mai di scendere nel basso e nel triviale pur di rimanere fedele alla natura ed alla sua ispirazione; come il poeta romano, che accetta infine di cedere al demone del suo furor dionisiaco per prendere il posto dello scomparso Carlo Porta, e portare all’atto ciò che in Keats era destinato a rimanere in potenza.
In questa duplice incoronazione poetica il tema della traditio lampadis sembra quasi elevarsi al quadrato, con Burgess stesso che raccoglie la fiaccola di Belli; come dimenticare che il suo alter ego traduttore discenderà proprio da Gulielmi?
Note
1 “Cristo pendebat dalla croce e gridava ‘ABBA ABBA’. Ora John sapeva che quelle parole in aramaico significavano ‘padre padre’, ma sapeva anche meglio che quello era lo schema di rima dell’ottava del sonetto petrarchesco.” Anthony Burgess, ABBA ABBA, Minerva, Reading, 1989, pag. 81
2 La Sinfonia Napoleone
3 “Qui giace Uno il cui nome fu scritto nell’Acqua.”
4 “Ma alla fine non resta che questo io, privo di forma e di memoria, di intelligenza, a meno che non lo affidi a qualcosa. Così per il momento lo consegno all’acqua canora della piazza, e cedo perfino il mio nome. O, se preferisci, scrivo quel nome nell’acqua e ascolto l’acqua mormorare intoccata il suo canto, io, io, io.”. Anthony Burgess, pag. 60.
5 “Belli dalla parte dello Stato, castratore di pensiero e di parola al servizio della stabilità. Belli al calar delle tenebre, che conserva la ragione attraverso la scurrilità. Tutta la letteratura è sovversiva, ha detto qualcuno. Voltaire? Un compito repressivo mi costringerà ad un métier di sovversivo. Riconosco di essere un uomo dimidiato.” Anthony Burgess, ABBA ABBA, pag. 78
6 “Roba da recitare nelle osterie, a porte chiuse. Del tutto impubblicabile.” Anthony Burgess, ABBA ABBA, pag. 78
7 Questo compito é riservato a te. Dipingi tu la Roma immutabile attraverso le sue mille voci. Scrivi tu duemila, tremila sonetti. Tutti sulla sporca, cinica, sofferente, giubilante Roma, e tutto in voci romane. Non la tua voce, non questo. Le loro voci. Perché questo dovrebbe farti sentire in colpa?” Anthony Burgess, ABBA ABBA, pag.80
8 Giuseppe Gioachino Belli, Sonetti, Mondadori, Milano, 1997, pag. 6
9 Arancia meccanica
10 Nadsat è il termine che designa la lingua della narrazione di Arancia meccanica; si tratta di un inglese ibridato con strutture sintattiche e parole tratte da altre lingue, soprattutto dal russo.
da: Fabia Scali-Warner, Una scala per l’eternità. ABBA ABBA di Anthony Burgess, Delirium Edizioni 2010
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Caino
Nun difenno Caino io, sor dottore,
ché lo so ppiù de voi chi ffu Caino:
dico pe dì che quarche vorta er vino
pò accecà l’omo e sbarattaje er core.
Capisch’io pure che agguantà un tortore
e accoppacce un fratello piccinino,
pare una bonagrazia da burrino,
un carcio-farzo de cattiv’odore.
Ma quer vede ch’Iddio sempre ar zu’ mèle
e a le su’ rape je sputava addosso,
e no ar latte e a le pecore d’Abbele,
a un omo com’e noi de carne e d’osso
aveva assai da inacidije er fele:
e allora, amico mio, taja ch’è rosso.
G.G. Belli
Cain II
Please don’t think, Herr Professor, I intend
Defending Cain. Better than you, perhaps,
I know him, but know too the sort of lapse
Drink will induce – how it can blind and bend
And break. See Cain drunk, beckoning like a friend,
Thick stick in fist, an oiled smile on his chaps,
Wooing his brother hither. Then he taps,
Raps bone, draws blood, the swine, and makes an end.
Filthy? Oh, yes. Still, it was far from funny
Having to hear God hawking up his phlegm
To spit upon his parsnips and his honey
But not on Abel’s sheep, no, not on them.
Born of the breed of men and not of mice,
Cain growled revolt then cut himself a slice.
G.G. Belli, traduzione di Anthony Burgess in ABBA
***
a cura di Anna Maria Curci