, ,

Su “Parigi è un desiderio” di Andrea Inglese. Fughe e ossessioni

di Luciano Mazziotta

Parigi è un desiderio

 

Il romanzo era lo sbocco obbligato cui ha condotto la scrittura di Andrea Inglese in questi anni. E un romanzo come Parigi è un desiderio (Ponte alle grazie, 2016) è stato preannunciato più volte: non parlo solamente del preludio rappresentato da Commiato da Andromeda (Valigie rosse 2011); non parlo neppure esclusivamente del continuo impegno sulla prosa che Inglese ha profuso nei suoi lavori più recenti. Se è proprio del lettore trovare la ragione di una scrittura altrove rispetto alla semplice apparenza, il necessario esito in un romanzo l’ho rinvenuta già nel libro “di poesie” La grande Anitra (Oedipus 2013), in cui, seppure sfumata in termini apocalittici e allucinati, si tentava, ad ogni modo, di “raccontare” qualcosa in una struttura unitaria. Adesso è l’ora di Parigi è un desiderio, romanzo denso, romanzo di formazione, forse, ma, forse meglio, romanzo di ossessioni molteplici.
Romanzo in prima persona, romanzo che stilisticamente non è che il compimento di quel tipo di scrittura iniziata, almeno in Italia, da Celati, mette in scena la quête, antieroica, di un personaggio, Andy, ossessionato dallo spazio, dalla letteratura, dal lavoro e dalle donne.
Le due ossessioni primigenie sono sicuramente la città di Parigi e la letteratura, che come dei macigni pesano sulla soggettività del protagonista, facendo in modo che le altre vengano sempre e comunque trattate in funzione delle prime. Sfuggono quasi o vengono proiettate in un alone di irrealtà.
Parigi è l’emblema della fuga da Milano, un emblema all’interno del quale “entrare dal basso”. A spingere e a orientare questa fuga, tuttavia, è la letteratura: i romanzi soprattutto. Sì, perché è la scrittura vorticosa della prosa, quelle “circostanze della frase” che incitano il movimento: i romanzi di Dickens, di Dumas, la Bibbia illustrata per bambini; Venedikt Erofeev, Tolstoj, la scrittura di Perec sono l’enzima della costruzione di un altrove, di una Parigi “altra” rispetto a quella invasa dai turisti. Ma i romanzi, la letteratura, il cinema sono anche categorie interpretative del sé, nonché pretesti per fuggire dal male psichico del protagonista che, comunque, resta nascosto.
Del resto, se è vero che la scrittura di Inglese è egocentrata, tutta questa letteratura e questo bisogno di spazio appaiono come una strategia per coprire la verità di quell’io. Sono, dunque, quelle strategie che affrancano il soggetto da ogni pretesa di autenticità lirica e/o epica.
Non vengono coperti, certo, gli eventi traumatici afferenti al lavoro universitario ed al campo delle relazioni amorose. Parigi è un desiderio, così, desta sul lettore il sospetto che il trauma effettivo del protagonista non sia affatto trattato. Il lettore, dunque, non si trova davanti ad una confessione consolatoria della quale non sa che farsene; quest’ultimo è, piuttosto, chiamato a ipotizzare un’analisi – lettino e appunti – del personaggio principale, perché il suo male proviene da lontano, da un lontano inconoscibile per chi legge e forse per il protagonista stesso. La letteratura “non muta nulla”, avrebbe detto F. Fortini. Anzi, è solo una coltelleria ci dice Parigi è un desiderio.
Parigi e la letteratura, per quanto ideali e astratti, per quanto ossessive ed ingannevoli, costituiscono un punto di appiglio per il protagonista del romanzo: il lavoro, invece, viene definito come “improbabile”, mentre le donne “costituiscono il problema” di Andy. Il cortocircuito si attiva quando le quattro ossessioni, lavoro universitario, amore, letteratura e Parigi, confluiscono, inaspettatamente, nel medesimo punto. In questo caso è come se Inglese ci comunicasse che si esaurisce la possibilità del sogno e dunque del romanzo: il primo innamoramento a Parigi, primo di una lunga serie sempre più complessa, rende banale “quel sogno d’arte e di amore” che era la città. Parigi può rimanere solamente desiderio ideale. Il soddisfacimento del desiderio, la sua realizzazione, non può che coincidere con la stessa morte del desiderio. Forse è per questa ragione che il lettore non troverà in questo libro scene di grandi innamoramenti, commozioni, gelosie. Parigi è un desiderio è il romanzo che tratta gli amori solo nel momento del loro crollo. Perché tutta la fenomenologia dell’amore è superflua. E non narrabile. Tranne in un caso.
Non così il lavoro. Se la prima ossessione, infatti, è raggiungibile, quindi tematizzabile al momento del crollo, nel suo personaggio Inglese condensa tutta la difficoltà della realizzazione lavorativa del XX e del XXI secolo. Il lavoro, quello “desiderato”, resterà sempre e soltanto un desiderio. Come Parigi. Il lavoro è più ideale, più irraggiungibile dell’amore. Il soggetto non può trovare un posto nel mondo, perché quel mondo lavorativo, quello universitario, francese come italiano, non può che essere castrante; non fa altro che minare da ogni parte l’autostima del protagonista, che, di contro, per sopravvivere, non può che lanciarsi in un antifrastico, nervoso, cinico ma anche realistico elogio alla demenza. Il soggetto si degrada pur di non lasciarsi degradare dal mondo degli “intelligentoni” che, in una cena universitaria, di quelle comuni, sanno già chi salutare e chi no. A chi rivolgere la parola e a chi no. Chi esiste ed esisterà. E chi no. L’uscita è l’unica possibilità. Mentre l’amore, le donne, più donne, sono inevitabili, anche per questioni biologiche, dal lavoro ci si può affrancare. Il lavoro sognato non può che restare un lavoro sognato.
Amore e lavoro costituiscono, ad ogni modo, gli spazi claustrofobici – ideali – all’interno dei quali si muove il personaggio. Parigi e la letteratura li spiegano. Il protagonista ha il panico. Ma qualcosa può liberare Andy, come Andromeda nel dipinto di Pietro da Cosimo. E in quel qualcosa di definitivo, che farà di tutta la vita a venire un eterno presente, si potrà rinvenire il “lieto fine” di questo romanzo e della formazione del protagonista. Oppure no.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: