
Simone Ghelli, Sensible Soccer
Quando cominciai a entrare nel giro degli help desk, alcuni anni fa, la mia postazione di lavoro constava soltanto di una scrivania con il telefono e un computer fisso, dove tra una chiamata e l’altra passavo il tempo a cercare di vincere il campionato di Sensible Soccer con un simulatore che avevo scaricato da internet – quello di cui vi sto parlando era stato in assoluto il mio gioco preferito durante l’adolescenza, all’inizio degli anni Novanta, quando andavo apposta a casa del mio amico Claudio, che aveva sostituito il vecchio Commodore 64 con l’Amiga 500, per giocare il vero campionato di serie A (per noi il vero campionato consisteva nel passare un’intera giornata preliminare, se non di più, ad aggiornare la rosa delle squadre, cambiando nome e cognome dei giocatori, così come comparivano nell’album di figurine Panini della stagione in corso).
Con il trascorrere dei mesi e il ripetersi delle telefonate, lì nella mia postazione, divenni sempre più intollerante alle procedure e ai dialetti, alle posture che attribuivo a una tonalità della voce o al modo in cui mi arrivava il respiro al di là della cornetta – non avevamo ancora le cuffie col microfono: quelle sarebbero arrivate dopo, in altri anni e altri contact center. Ben presto non sopportai più le pretese, le implorazioni, quelli che parlavano masticando, che ansimavano tra una parola e l’altra, che usavano il dialetto come se fossi stato un loro vicino di casa. Più di tutti non sopportavo quelli che dovevano informarmi del loro grado, del loro ruolo, delle loro idee sulla politica, l’economia e la vita in generale e poi degli stranieri, che indicavano come l’origine di qualsiasi problema.
In breve non sopportai insomma più niente se non Sensible Soccer, se non le sagome schiacciate dei giocatori che tagliavano il campo con lunghi lanci e che si prodigavano in eccezionali scivolate con cui atterravo gli avversari perché non sapevo come altro fermarli. In breve la mia testa fu totalmente occupata dall’assillo di dover imparare a costruire le mie azioni con corti passaggi in avanti, concentrata sulle contrazioni delle dita che dovevano dare un tocco leggero al tasto (perché non giocavo certo col mouse o con un joystick come all’età di quindici anni, ma con le frecce direzionali e i tasti con cui cambiavo anche il giocatore che comandavo).
La mia stella era Samba, un giocatore velocissimo che scoprii nella seconda serie inglese e che costava soltanto 400k ma con cui riuscivo a segnare a raffica come se fosse stato un Van Basten o un Trezeguet. Con la palla al piede di Samba raggiungevo l’angolo dell’area di rigore e calciavo in diagonale con uno strano effetto che ricordava quello dei personaggi di Soccer boy. La maggior parte delle volte tiravo a casaccio, spesso sbagliavo tasto e praticamente passavo la palla agli avversari, ma giocare coi tasti non è affatto facile, dovete credermi; è in qualche modo una postura innaturale. Samba naturalmente non bastava mai, con lui da solo potevo al massimo riportare una squadra dalla terza alla seconda divisione, o dalla serie cadetta alla massima serie, dove di campioni ne servivano però tanti e per vincere era necessario saper giocare con l’intero collettivo e io non c’ero riuscito mai. Non possedevo l’idea corale, l’organizzazione visiva e concettuale di una serie di elementi che si muovono insieme e in modo ordinato – il mio modello, d’altronde, era sempre stato il Subbuteo, dove con il dito si può spingere soltanto una pedina alla volta, massimo tre tocchi, dove il gioco non è un film che scorre ma un susseguirsi di istantanee fotografiche che l’avversario osserva da tutti i punti del tappeto verde (il mio l’avevo fissato con l’aiuto di mio padre su un supporto di plastica rigida che poi appoggiavamo sul tavolo della sala da pranzo, in modo da girarci comodamente intorno, e avevo persino il pallone arancione per le partite sotto la neve, anche se è tutta una messinscena, perché non è che può nevicarti dentro casa).
Col tempo imparai a premere la P di pausa non appena squillava il telefono, ma le prime volte fu una tragedia perché il gioco andava avanti e mi trovavo a rispondere con il sonoro della squadra avversaria che segnava in sottofondo e mi salivano dalla gola abbozzi di imprecazioni che mi dovevo ringoiare. In quasi due anni di lavoro la mia massima soddisfazione fu quella di portare il Montichiari in serie seconda divisione.
Poi, non so come, ma mi stancai anche di quello. La ripetitività del lavoro aveva finito con l’intaccare la qualità del gioco e sempre più spesso m’impallavo lo sguardo nello schermo.
Il problema è che al punto in cui ero arrivato mi sentivo polveroso dentro. E poi – ma questo è successo dopo, quando è scaduto anche l’ultimo contratto e si sono spezzate le catene che mi tenevano legato alle cuffie e non c’è stato più nessuno schermo tra me e il mondo – a un certo punto mi è venuto il pensiero che anch’io fossi agito da qualcosa. Sentivo sopra la mia testa una manopola gigante che mi mandava a sbattere contro gli stessi ingranaggi, come la pallina impazzita di un flipper. Ho iniziato a svegliarmi nel cuore della notte con questo ronzio nelle orecchie, questo rumore inquietante che mi ricordava le lunghe attese davanti al registratore del Commodore 64 mentre caricava i giochi.
Ormai ero ufficialmente un disoccupato, ma non ho mai trovato il coraggio di occupare tutto quel tempo.
Ero immobile come i difensori della terza divisione che Samba dribblava come birilli.
Ero sempre stato come il pubblico ovunque uguale del Sensible Soccer.
