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Si ristampi #2: Jim Harrison, Lupo (di Maurizio Ceccarani)

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Il primo romanzo di Jim Harrison è comparso in Italia grazie ai tipi della Baldini&Castoldi ora confluita, dopo varie vicende, nella Dalai editore. Stiamo parlando del 1996. Il romanzo, che in realtà risale al 1971, ha per titolo Woolf – A False Memoir che nella traduzione di Fenisia Giannini è diventato semplicemente Lupo. Si tratta del flusso di ricordi di Swanson, un inquieto scrittore, non integrato nella cerchia del Greenwich Village, che sente il bisogno di immergersi nella natura selvaggia dell’Upper Peninsula del Michigan per ritrovare una qualche forma di vita autentica, lontano dai disastri che è riuscito a procurare e a procurarsi con la sua insolenza, con le sue avventure erotiche e alcoliche. Questa sua fuga dal mondo abitato ha anche un altro scopo: avvistare un lupo. Sentivo che se fossi riuscito ad avvistarne uno, il mio destino sarebbe cambiato. Forse l’avrei seguito finché, fermatosi, mi avrebbe salutato, ci saremmo abbracciati, e io sarei diventato lupo. Harrison è della generazione immediatamente successiva a quella di Kerouac e sarebbe facile assimilarlo all’autore di On the Road. In realtà di quella generazione Harrison fa un quadro abbastanza dissacratorio, rivelando radici più profonde che vanno a toccare i nuclei fondanti della cultura americana.
Il Memoir scaturisce dai continui flashback di Swanson, mentre egli è alle prese con l’ambiente ostile dell’Upper Peninsula. Sono ricordi spesso deliranti, non sempre in ordine cronologico, che ci fanno fare un viaggio per l’America da Est a Ovest (come da manuale) per concludersi con il ritorno a New York. L’America che si rivela è un popolo di solitudini, di anime stordite in cerca di punti di riferimento che i residui di un’educazione calvinista non riescono più a dare. Un’America che non parla della morte perché non è molto interessante, salvo quando questa si avvicina per ogni singolo individuo. È l’America di un frettoloso carpe diem che si realizza in un vortice di avventure erotiche consumate nello squallore dei drive-in o tra il mobilio polveroso di alberghi di infimo ordine, o che sfocia in memorabili ubriacature e in vagabondaggi senza meta, alla ricerca di qualcosa di autentico e di desiderato che fermi la corsa verso il nulla. Immergersi in una natura assoluta, dove sia difficile scorgere anche solo la scia di un aereo nel cielo, potrebbe essere un modo per rinascere, per disintossicarsi, per crearsi un nuovo destino. In questo c’è grande affinità con un autore che precede Kerouac: Hemingway. Nick Adams nel racconto Grande fiume dai due cuori  (Quarantanove racconti) ritrova una pace interiore proprio immergendosi nella natura del Michigan, in un solitario confronto con un paesaggio immenso, capace di schiacciarti o di assorbirti completamente. Nel perdersi tra i boschi del Michigan, Swanson non incontrerà il lupo. Sa che il lupo ha percepito la sua presenza, ma non si farà vivo, il suo destino non cambierà. Al ritorno dal suo vagabondare si troverà di fronte alla sua vecchia casa abbandonata. La porta è aperta, ma non riuscirà ad entrare in quel buco nero. Voglio qualcosa di più durevole, ma dubito che l’otterrò, se non morendo. L’idea di un incontro con una forza della natura, spesso identificata con un animale selvaggio, è uno dei fondamentali della letteratura americana. Si tratta di un incontro con il mondo altro, un incontro che può salvare o uccidere, redimere o dannare. Celebri esempi possono essere Moby Dick o il cane Buck del Richiamo della foresta, ma nel caso di Harrison calza bene l’orso di Go down, Moses di Faulkner. In quel racconto il giovane Ike McCaslin affronta una sorta di iniziazione: incontrare da solo e disarmato un orso. Si tratta di una specie di rito magico che gli darà la forza di essere diverso dal resto degli uomini e di fare una cosa che nessun altro avrebbe mai fatto: rinunciare alla cospicua eredità paterna. È così, facendo una cosa difficile da accettare per gli altri uomini, che Ike riuscirà a liberarsi dalla violenza e dall’ingiustizia che su quell’eredità pesavano come macigni. Il tema dell’orso verrà ripreso proprio da Harrison nel suo racconto più noto Legends of the Fall (1979), dove il giovane Tristan, scontrandosi con un orso, riesce a ferire l’animale e a strappargli un’unghia. Tristan affronterà nella vita dolori e traversie laceranti con tutta la forza e il coraggio che gli viene da quell’impresa. Inutile dire che sarà proprio quell’orso poi a riprendersi la sua vita. Nell’accogliere temi e suggestioni dei grandi classici americani, Harrison anticipa tra l’altro alcuni elementi della narrativa di Cormac McCarthy. Il vagabondare di personaggi come Suttree (Suttree, 1979) o come Billy Parham (Oltre il confine, 1994), il loro continuo confrontarsi con una natura in situazioni estreme, la loro esistenza, condotta spesso al margine di una società così diversa dal proprio intimo modo di sentire, ci ricordano alcuni aspetti di Swanson. Ma soprattutto è nella lupa di Billy Parham, così carica di valori metafisici, che ritroviamo quell’animale in cui Swanson aveva riposto una qualche speranza di salvezza.

© Maurizio Ceccarani 2014

Qui la prima puntata di “Si ristampi!”


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