di Roberto Batisti
Con questa raccolta, la sua quinta in dieci anni da Vicine scadenze del 2004, Alberto Cellotto inaugura come meglio non si potrebbe la collana ‘hence le joie’ di Prufrock spa (e all’editore vada un plauso per la cura adoprata nel confezionare un oggetto libro elegante e azzeccato sul piano grafico, materico, oltre che per il coraggio e la coerenza di visione con cui sta costruendo il suo catalogo). In linea con l’indirizzo programmatico della nuova collana («libri che in massimo venticinque poesie svilupperanno un immaginario profondo e autosufficiente»), l’autore inanella ventuno brevi liriche, di sette versi ciascuna (si confronti la misura media ben più distesa del precedente Pertiche del 2012, che addirittura si chiudeva con un lungo poemetto), scandite da una misteriosa numerazione che per salti discontinui arriva fino a 72; e le arma di una coerenza interna, di una densità linguistica micidiale. A tutti i livelli.
Cellotto, infatti, sa quanto l’arte richieda una dose di costrizione per dispiegare la propria libertà (verità disgustosamente banale, sovente ossequiata, non sempre messa in pratica), e si è dato anzitutto una misura, regolare ma non rigida, che informa tutti i componimenti. Non vige un isosillabismo rigoroso, ma in ogni poesia a sei versi (più) lunghi ne segue uno (più) breve, in rima obbligatoria col primo; la rima è facoltativamente ripresa dagli altri versi, spesso al mezzo, o imperfetta. Chi si soffermi ad analizzare e a smontare il congegno di ogni singolo componimento, poi, vedrà con quanta duttilità e finezza l’autore sappia impiegare le figure di suono (rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, fino a saussuriani anagrammi), che non si limitano a ricalcare le figure di senso, o farvi da contrappunto, ma volentieri le creano.
Unità formale e tematica è data anche dalla disseminazione, attraverso il libro, di certe parole chiave, caricate di potenza dal loro stesso ossessivo ricorrere, un po’ come le parole-rima di una sestina: “viso” (già incastonato nel titolo) coi suoi sinonimi, poi “tempo” e “posto”, ma anche “terra”, “strada”, “vento”, “lampo”. Come si vede, Cellotto lavora con un lessico volutamente ristretto e ‘medio’ (ma non generico), dove rare sono le voci che muovono alla ricerca del dizionario (e si tratta casomai di precisi tecnicismi, non di glosse preziose: “sodaglia”, “friso”). La trama serrata dei richiami, degli echi, delle riprese fono-lessicali travalica i singoli componimenti e dà coesione alla raccolta intera.
La pronuncia si mantiene in sicuro equilibrio fra lirismo, al limite (al limite, per fortuna) di accensioni ‘orfiche’, e concretezza (iper)realista, e da ciò ricava la sua tensione drammatica. L’autore non cerca l’oltranza verbale fine a sé stessa, ma sa come e quando lasciare che la suddetta dialettica tra formalismo e urgenza compressa sloghi il dettato, sublimandolo; torcimenti della lingua – tra il simbolista e l’espressionista – mai esibizionistici, a forte valore espressivo e cognitivo (“ci fermiamo per prendere / un boccone di aria pesta annusata / abbaiando”, “esperto paesaggio / sporgente, serrato a festa”, “io sono bianco e torto / come un continente visto / da fuori”).
Nel complesso, nulla che mancasse nelle precedenti prove di Cellotto, per quanto ho potuto leggerne, ma giunto oggi a grandi livelli di sintesi e di maestria espressiva. Una poesia ‘classica’ (e pur sempre di un ‘classico’ contemporaneo, tardonovecentesco), se per classico intendiamo non ostentatamente ed esteriormente avanguardistico; in realtà, una voce originale (difficile individuare discendenze ovvie: modelli e maestri sono stati ben digeriti), personale e penetrante.
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Alberto Cellotto, Traviso, Prufrock spa, 2014, p. 50.
È possibile leggere alcuni testi tratti da Traviso qui.