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Martina Caschera – Pub

DSCI0264
parigi – foto di gianni montieri

 

Martina Caschera – Pub

 

Non c’era niente.
Dal mio lato della strada solo asfalto lucido di pioggia fresca, luce da lampione e qualche neon di negozio chiuso che aveva investito su certe luminarie stanche l’estate precedente.
La vecchia Punto, che sapevo bianca, doveva sembrare, agli occhi dei pochi passanti, un confetto pallido sulla strada di provincia, sfrecciante il giusto.
Non c’era niente.
Né bello, né brutto. Un vuoto in cui le cose spuntavano senza molta voglia.
Palazzi, palazzine, edifici in muratura e cemento. Per la via solo qualche anima, ché quando si fa buio meglio non girare troppo a piedi.
Gruppi di tre o quattro persone comparivano e scomparivano ad intermittenza, grazie ai fari, grazie ai lampioni.
— Che facciamo?— chiese lui, rompendo un silenzio che s’era fatto splendidamente compatto.
— Non lo so — feci io, disturbata da quella crepa.
— Avevi detto volevi uscire, siamo usciti.
Le sue affermazioni erano così, le sue domande anche. Non presupponevano aggiunte, ma se le aspettavano. A volte, il più delle volte, preferivo non aprire bocca. Io, che sono così logorroica. Lo innervosivo, ma mi sembrava il giusto prezzo per quel modo di fare domande passivo-aggressivo.
In quel momento pensavo: sii chiaro, sii chiaro una volta tanto. Dimmi esattamente quello che vuoi. Ma non dissi nulla e rimasi a guardare gli stracci di panorama, dal finestrino.
Lui era però sereno quella sera, non colse la provocazione e anzi, propose mestamente:
— C’è un pub qui vicino. Non è un posto figo, ma è un pub.
— Va benissimo, figurati. Mi basta una birra.
Sorrise leggermente, più ad apprezzarsi nello sforzo comunicativo che a compiacersi della soluzione trovata quella notte, tra di noi. Una soluzione momentanea, come tutte le soluzioni.
— Eccolo, è quello lì. Nulla di che. E’ pieno di ragazzini… —
Si giustificava, come se dovesse ancora vendermi quella piccola città in cui viveva. Come se avesse ancora il bisogno di ricordare a se stesso di non avere più alcuna pretesa.
Scorgevo la luce del neon, bianca, illuminare la piazzola antistante al pub. Carica di giovani fumanti. Mi sfuggì un sorriso, poggiai la mia mano sulla sua, che cambiava marcia, per parcheggiare.
Sereni scendemmo dall’auto, mentre nella mia testa tutto lo spazio si riempiva di figure umane. Nella realtà c’erano una decina di persone, che si relazionavano con flemma, come al rallentatore. Le mani, le braccia, le une sulle altre, meccanicamente. Avranno avuto tutti all’incirca vent’anni e soffrivano di dipendenza da tabacco.
Lui mi sorrideva in maniera più decisa, tenne la mia mano mentre ci facevamo largo tra le persone e superavamo la soglia. Essere lì insieme era tornato ad essere bello, riconoscibile.
In pochi istanti eravamo dentro un locale in penombra. Musica rock anni ’90. I Blur. I Placebo.
Non c’era niente.
Niente sui tavoli. Niente sotto i tavoli. Niente alle pareti.
Era un vuoto assoluto di bellezza: ci sembrava di tagliare l’aria  a fette, coi nostri corpi perplessi e snob.
Trovammo un tavolo, ci sedemmo. Lui aveva perso il suo finto imbarazzo iniziale e ora semplicemente si sedeva in quel nulla, in attesa di riempirsi di birra. Andava bene, benissimo. Non riuscivo a immaginare niente di più rilassante. Avrei davvero potuto essere chiunque, fare qualsiasi cosa.
Scandagliavo le sagome che, come noi, riempivano lo spazio con corpi e parole. Ragazzini, sì, ma anche qualche coppia matura. Sorrisi, di certo qualche storia sospesa. Oh sì, da qualche parte lì dentro c’erano dei pieni che lottavano per sopravvivere, c’erano dei nodi che si giravano attorno, per non sciogliersi.
Ma io non potevo coglierli. E non volevo.
Non c’era niente. Ed era bellissimo non doversi difendere.
— Che prendi?
— Una chiara.
— Piccola?
— Piccola…
Si alzò e si avvicinò al bancone, deciso. Conosceva il barista. Si fermò lì fino a che non furono pronte le birre, le portò lui al tavolo. Ricaricato, sembrava un altro.
— Pensa che lui era a liceo con me.
Allungai una mano verso la mia piccola birra, mentre lui avvicinava a sé un bel boccale.
— Chissà com’è rimanere nella stessa città da sempre- commentai io.
Sì. Dall’alto del mio niente, ogni tanto rilasciavo osservazioni. Neutre, secondo me, ma che avevano effetti di lama.
— Come deve essere? Una merda. —

© Martina Caschera

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***

Nota biografica: Martina Caschera nasce a Napoli nell’86, al momento vive tra Napoli e Prato, su un treno nel mezzo. Ha studiato lingue orientali, appassionata di letteratura e arti grafiche cerca di conciliare le sue passioni muovendo i primi passi nel mondo della critica del fumetto. Continua comunque, imperterrita, a scrivere racconti e talvolta poesie. Collabora con Extravesuviana e con Una Banda di Cefali.

Una replica a “Martina Caschera – Pub”