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Cinque poesie di Lorenzo Mari da “Nel debito di affiliazione” (L’arcolaio, 2013)

Lorenzo Mari, Nel debito di affiliazione (L'arcolaio, 2013)

Nel debito di affiliazione

A cosa potrà servire –
non alla mano del padre,
non all’etimo del nonno:
casomai potrà addurre motivo
soltanto al taglio

e all’abrasione. E con il vuoto
dell’incavo nudo, dei nudi semi,
contribuire, infine, a
piovere il niente – oppure
.                                           a colmare la terra.

.

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Punto gotico

Non restano che le spoglie
di chi salì alla linea gotica cantando,
birre moretti nella sacca, fingendo
nuove resistenze. Il punto è mancato
alla linea, alla storia, giocando

di singolare luce, come una delle poche lucciole
che qui ancora si contano, come sulle Langhe,
e ormai cosa dare in luogo della carne
della memoria – neanche il merito
dell’osceno può restare oggi

alla carne dei mezzi padri,
già nera perché già scura:
non è più esposta
non è ancora ritirata –

sono ladri di ricotta e di quaglie:
è carne ormai sicura.

.

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Un asso nella manica

Guardando più a fondo, gli occhi del padre
sono dolci, in qualche modo,
quando smettono gli occhiali,
quando li inforcano. Il debito

non è soltanto nel capitale,
né unicamente nella mano
che si protende, da sola,
sul gioco di carte, sul tavolo.

Se al gioco delle lenti presiedono
i secoli, cosa vorrò mai dire di mio
a quel punto, anche avendo
un asso nella manica.

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La fatica di smettere i panni di guerra

La fatica di smettere i panni di guerra
si misura al tramonto, con una luce
sempre di taglio, implacabile
sul corpo. Orecchio proteso, in fondo,
che cerca musiche, come sempre:
una consolazione, per le beatitudini sole.

.

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Tutto al tutto, niente al niente

Spingi per la schiena spezzata
le vittime al ritorno – chiedono
piccole guerre private, ed eccole
su un vassoio di argento. Chiedono
un moschetto, una baionetta,
un arco, un coltello, uno stilo:
le armi bianche che ti restano.
Concedi tutto: è la lunga distanza,
il giro della lingua, a determinare
il fatto che ormai la tua parola
ha chiamato tutto al tutto
e ha poi risposto
la voce mancante
come d’eco: niente
al niente.

.

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____________________

Si sta in attesa di un chissà sin dalle prime battute della nuova raccolta di Lorenzo Mari, uscita da non molto per L’arcolaio (editore che già pubblicò Minuta di silenzio, nel 2009). Si sta in attesa di un segno e queste poesie non si sottraggono a questa attesa («poesia d’apnea» è una delle possibili definizioni date da Giacomo Cerrai nella prefazione), consapevoli che una «voce mancante / come d’eco» può pure rispondere «niente al niente». E così questi versi si fanno testimoni di questa e di altre mancanze, di ogni debito contratto dal ‘figlio’ se vogliamo in quell’affiliazione proposta nel titolo riconoscere un tanto di paternità cui volgere lo sguardo.
È una raccolta matura questa di Mari, perché matura è la lingua (anche dura, dove spesso si incontra il lessico militare a sottolineare un costante assetto di guerra, se non fosse che questa guerra è stata persa prima ancora dello scoppio della prima mina da una generazione alla quale è stato sottratto e quindi negato il presente prima ancora del futuro); maturo è il segno; matura la direzione della riflessione (come notato dalla puntuale lettura di Viola Amarelli).
Eppure la parola resiste e lotta, e la poesia si fa testimonianza civile – malgrado Cerrai preferisca non considerare ‘civile’ questo nuovo capitolo di Lorenzo Mari – di tutto questo, (pro)seguendo il discorso di Giuliano Mesa, sempre più, giustamente, autore-faro della poesia contemporanea che cerca di (ri)fondare una propria idea di tradizione. [f.m.]

Lorenzo MariLorenzo Mari (Mantova, 1984) è dottorando in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali presso l’Università di Bologna. Ha pubblicato le raccolte di poesia Libere sequele (Gazebo, 2004), Pellegrinaggio senza Endimione (Inventario Senese, 2007) e Minuta di silenzio (L’Arcolaio, 2009). Traduce dall’inglese (Bless Me Father, Compagnia delle Lettere, 2011, in collaborazione con Raphael d’Abdon) e dallo spagnolo (Canto e demolizione. Otto poeti spagnoli contemporanei, Thauma, 2013, con Alessandro Drenaggi e Luca Salvi). Insieme a Luigi Bosco, Davide Castiglione e Michele Ortore coordina il sito letterario “In Realtà, La Poesia” (www.inrealtalapoesia.com).

5 risposte a “Cinque poesie di Lorenzo Mari da “Nel debito di affiliazione” (L’arcolaio, 2013)”

  1. Poesie finalmente con una densità del dire, con una riflessione a monte, che sento latitare in molti altri coetanei. Poesie, insomma, che invitano alla riflessione proprio perché presuppongono una riflessione nello scriverle, e non qualche trovata ad effetto o una girandola di immagini. Sobrietà e precisione sono le coordinate di questi versi, insieme a un’amarezza troppo vera per concedersi qualche scatto d’ira o di sarcasmo. Mi dispiace leggere questo pessimismo, che talora mi rimanda all’ultimo Sereni ma senza più il piglio tragico proprio perché – nelle nostre vite storiche e biologiche – transizione verso il negativo non c’è stata, il negativo e la mancanza del padre ci ha accompagnato dagli anni ’80, dal riflusso in cui siamo nati. Insomma, in questi versi c’è un controllo unito a gravitas non auto-commiserante che mi sento molto vicini nel tono. Complimenti, Lorenzo (e, va da sé, ordinerò al più presto il libro)

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  2. Sarebbe strano leggere nei versi di Lorenzo un pessimismo – o realismo? – da un piglio sereniamente tragico: sarebbe un sentimento letterario, totalmente letterario e non veritiero, come invece emerge con tutta la sua dolorosa forza ora.
    C’è, questa sì, la grande lezione dell’alta tradizione del secondo novecento; accompagnata, affiancata da quei riferimenti più nuovi (leggi Mesa) che si innestano in quell’altra.

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  3. Ringrazio sia Davide che Fabio per gli appunti che, non lo nego, mi sembrano positivi e al tempo stesso molto densi: food for thought…

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  4. Scusatem il ritardo. Un grazie sentito alla Redazione di Poetarum e al grande Fabio.
    Sono orgoglioso di questo secondo libro di Lorenzo. La sua scrittura pare scritta da una persona molto più adulta. Dice bene Ceccarini quando afferma alla maturità dell’opera.
    Gianfranco.

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