Se guardiamo al panorama contemporaneo in termini di una eterogeneità, dove i vari assetti poetici convergono, o si distanziano anche, entro un criterio di fluidificazione e di vitalismo delle molteplicità, i versi inediti di Nicola D’Altri, nato nel 1990 a Cesena, ben si prestano a un fare poesia in modo pulito ed essenziale, e che non rifiutano di conciliare la parola contemporanea con la forza lirica della tradizione:
Di sera ridursi a un quaderno
di silenzio quando tutta la carta
fa pace e il frigorifero è l’ultimo
essere sveglio, resta sempre una luce
accesa di fronte, al lato opposto
della corte. Stanotte è spenta.
È tagliente. Dormi. Senza
un linguaggio. Dormi dice e lo sanno
perfino le unghie e i capelli. È sottile
ma nella mia impazienza
so che tutt’ora mi parla tutto
dalla finestra. Tutto dice
alla mia tenacia – arresta, lascia.
La maturazione di un linguaggio, che ha in sé una limpidezza percettiva ed un’analisi ottica che tiene conto anche del movimento della luce nello spazio, rivela un io ridotto al puro osservare gli oggetti del reale, in una voracità constatativa e documentaria, nell’attesa che qualcosa accada montalianamente nelle stanze del quotidiano:
Cosa succede nel piano terra
del ghiaccio indifeso è
una sorta di taglio con luce
dritta nel mezzo.
Io ho una casa con piccoli
segni sul dorso che aprono
appena ai nuvoloni pieni.
Quelli che splendono
d’asma e lasciano al centro
un ritratto di cesta con dentro
i limoni, sul pavimento.
Si tratta di descrivere un microcosmo, il che «non è poco» come si dichiara nella poesia successiva, dove si nota una presa di posizione che vuole stare al di sotto oppure ai margini rispetto alle grandi ventate che agitano il fuori, ovvero il mondo nel suo ciclo frenetico urbano e tecnologico:
Invocare i chiostri dell’acqua
dallo stipite della finestra
non è poco, chiamare
da qui, da questo punto,
una ciotola e basta, fra tutti i mulini.
È una poesia che risente l’influsso dell’ambiente naturale e del paesaggio dell’infanzia in cui l’io poetico decide di immedesimarsi, e dove il «richiamo degli abeti» è il primo passo da compiere da chi si rende disponibile ad un percorso di ascolto o ad un vero e proprio richiamo di tipo tellurico e primordiale. L’occhio che vede il sotterraneo come attraverso una lente, arriva alla scoperta di un io che è un altro da sé, che è un «groviglio di ossa». Ciò che si presta per stato di natura a consunzione e decadimento diventa esperienza oggettivata e materia organica di lavoro, e quindi di scrittura.
Un groviglio d’ossa è una cosa
che sta dentro me come sotto la terra
nei cimiteri.
Gli stessi morti diventano le ombre di una possibile rinnovata silva dantesca, quella di una lingua che non conosce mezzi espressivi sperimentali, e che vuole offrire una dimensione di significati di piena ed abbagliante evidenza. In questi testi la parola è ricca di pulsazioni, e non fa che manifestare un proprio spessore ben definito, di un’asciuttezza che non è però priva di carica vitale. Non c’è nulla di enigmatico se non rifarsi costantemente a un presente vissuto come quid che sempre «sfugge», dove si tenta di scavare nel fondo del reale per riportare alla luce ciò che è stato stratificato nel corso del tempo vegetale, animale ed umano.
Un’aria fosca sale
dalla pianura. Una foschia leggera.
Già porta tepore di cuore
accasciato, nell’animale che suda,
nella sua sosta.
Già tende un invito, parla, quasi canta.
Chiama il grido della conchiglia
fuori dalla cornice, il pezzo che sfugge
tira le corde della pazienza
e s’infila nelle fessure.
Quella di Nicola D’Altri potrebbe essere una poesia che invita ad un atto di allarme nei confronti dell’esperienza fenomenica, dove le piccole cose e gli oggetti – e quindi il «grido della conchiglia» – non fanno che sottolineare la propria forma essenziale. E dove sta l’essenziale, sta anche il desiderio, per quanto limitato entro il perimetro di un angolo, di una finestra o di una stanza della propria casa, di un rapporto io-mondo che non sia irrealistico o virtuale, ma naturale, tangibile e vero.
Non disperare. Andiamo
per la strada dei ciuffi di cardo
con le altalene stringiamo trecce
ai cavalli, teniamo il palmo sul vetro
e guardiamo fuori. Non c’è nostalgia
solo una pezza minuta di buio
e un poco di collera resa alle costole
e il sangue pulito delle silenziose ferite.
Questi testi ci fanno riflettere come nel contesto odierno le poetiche, anche se sono diverse e poste a distanze geografiche, possano raggiungere una medesima osmosi entro quella che è una poligenesi degli stili; e per non perdersi nell’intricata matassa delle vicende artistico-culturali, occorre una sistematicità o corporalità che non si fissi in canoni, ma che sia sempre variabile nelle sue componenti individuali, sociali e storiche. L’agitarsi dei vari atti di parole – direbbe Saussure, padre della linguistica contemporanea – che stanno tra loro in una rapporto vivo e dinamico, può trovare un senso in quella che è una dimensione collettiva e plurale della lingua.
di Roberta Sireno
Una replica a “Recensione alla poesia di Nicola D’Altri di Roberta Sireno”
Gli ultimi versi sono d’un lirismo e musica bellissimi
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