Se San Giuliano fa gli occhi a mandorla
Lo ammetto: era uno dei miei rifugi preferiti. Quando avevo bisogno di placare la mia astinenza da lettura, salivo in sella al mio 125 “sgarrupato” e mi tuffavo a Via Mario Pirozzi. Ai piedi del vecchio liceo De Carlo, lungo il confine fra Giugliano e Villaricca, l’Edicolé Mondadori mi annunciava con la sua inconfondibile cartellonistica verde che c’era un ritrovo per i lettori compulsivi, un angolo di provincia nel giro di venti chilometri dove noi drogati della lettura potevamo procurarci i nostri trip a base di libri. Così potevo far finta per un po’ di ritrovarmi in uno di quei luminosissimi bookstore del centro di Napoli o di Milano che ho sempre sognato di avere sotto casa. I miei acidi erano i racconti di Borges; la mia marijuana i volumetti di poesia novecentesca; la mia cocaina i saggi della Scuola di Francoforte. In quel piccolo tempio del piacere intellettuale, non potevo fare a meno di onorare i riti consacrati alla librofilia: passeggiare fra gli scaffali, estrarre alcuni volumi, aprirli come delle piccole bibbie, leggere qualche frase a caso. L’overdose libresca durava a lungo, finché una gentile commessa non mi risvegliava bruscamente dalla visione lisergica per annunciarmi l’ora della chiusura. Incalzato dalla fretta, non mi restava che fare la mia scelta fra i titoli che mi danzavano davanti agli occhi, acquistarne uno e portarlo a casa come una reliquia. Da generoso devoto di solito lasciavo la cassa con almeno un paio di volumi acquistati. Si può dire che un pezzo di Edicolé sopravviva fra le pareti di casa mia.
Quel piccolo miracolo a cui ho personalmente partecipato dal 2005 al 2011 si è dissolto nell’incubo della crisi. I millenni di letteratura che appesantivano gli scaffali del locale hanno lasciato il posto a magliette e soprabiti prodotti a basso costo che hanno viaggiato dentro container dall’Estremo Oriente. Al posto di copertine plastificate, adesso alcuni manichini mi guardano sinistramente dalle vetrine di quello che è diventato un negozio di abbigliamento. I libri non sono stati bruciati per volontà di un’entità dispotica, come accadeva in Fahrenheit 451, ma sono stati semplicemente rimpiazzati con fibre e tessuti sintetici per effetto delle imprevedibili leggi di mercato.
Se provo a pensarci, in questo fazzoletto di periferia occidentale, i cambiamenti ci hanno sempre raggiunti di riflesso, ce li hanno imposti da fuori. Come i centri commerciali a ridosso dell’asse mediano, ammassati fra i vecchi campi agricoli e le baraccopoli dei rom, o il McDonald’s sorto lungo la circonvallazione esterna, destinato ad improbabili automobilisti di passaggio. L’americanizzazione degli ultimi decenni si è compiuta confondendosi con i riti autoctoni, le tradizioni semi-millenarie della Madonna Della Pace, i rumorosi festeggiamenti del Santo Patrono. Un puzzle culturale dai contorni incerti, che ha prodotto immagini deformate di un post-modernismo in salsa provinciale, come la diretta televisiva del Volo dell’Angelo trasmessa dalla rete televisiva locale.
Ora è la crisi economica a pioverci addosso, congiunta al sinocentrismo che sta ridisegnando gli assetti geopolitici del Pianeta. I negozi a Giugliano chiudono i battenti, i cinesi penetrano nel tessuto economico locale, stipulano accordi con la criminalità organizzata. Un flusso di cambiamenti che ti ritrovi davanti, senza neanche accorgertenene, mentre passeggi per caso a via Mario Pirozzi. In un giorno qualunque il bookstore che aspetti di trovarti all’angolo ha preso la strana forma di un negozio cinese. Venderà abiti a basso costo ai giuglianesi dissanguati dalla crisi. Pezze al posto di libri. Questo è il prezzo del cambiamento globale. Questo lo spread fra un passato confuso e un presente che non ci appartiene.
Marco Aragno
10 risposte a “Se San Giuliano fa gli occhi a mandorla (storie dal sud) – di – Marco Aragno”
D’altronde s’è sempre detto “sto co’ le pezze ar culo”. Avete, voi, mai sentito qualcuno dire “sto coi liBBri ar culo”? :)
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:-)
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Il guaio, Marco, è che questo presente “che non ci appartiene” ce lo hanno costruito sotto il naso, anno dopo anno, per un trentennio, il che significa che per quanto non ci appartenga, è ormai bello e radicato… e in qualche misura, più o meno consapevolmente, ne siamo stati complici, anche nel silenzio assenso o nel pensare che magari “non era così grave”. E lo era.
bel pezzo.
nc
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Un articolo interessante e verissimo. Mi tornano in mente
gli anziani quando affermano che questo mondo è
cambiato in peggio, molto in peggio.
E questo cambiamento si ripercuote su ogni cosa,
un esempio a caso: vi sembra musica quella che
oggi ascoltiamo? io credo che sia solo rumore!
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beh, dipende da cosa si ascolta.
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Ringrazio tutti per i commenti e gli spunti offerti.
@ Nàtalia: trent’anni, già. Forse anche più. Ma potevamo mai opporci? E come? Già Pasolini disse che tutto era avvenuto così rapidamente da non rendercene conto. La colonizzazione culturale, l’imbastardimento dei costumi, sono stati processi inevitabili, a cui il singolo, distrutta la comunità, poteva opporre ben poco nel suo isolamento. Il senso di inappartenenza fa riferimento a questo, ad una sensazione di spaesamento e impotenza rispetto ad un presente che non è mio, né nostro, ma è inevitabilmente ”altro”.
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e dipende pure dagli anziani… gli anziani tendono a dimenticare (per loro fortuna) che hanno consegnato ai giovani questo mondo (per loro sfortuna)
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volevo ringraziare Marco per questi contributi che arrivano dal mio Sud
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ma grazie a te per l’ospitalità.
Il sud, quando vuoi, ti (ri)accoglie.
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