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Alexandre Calvanese – “Occidente per principianti” di Nicola Lagioia (Einaudi, 2004)

Occidente per principianti (Einaudi, 2004) è il secondo romanzo di Nicola Lagioia e, come quello che lo ha preceduto (Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoij, minimum fax, 2001) e quello che lo ha seguito (Riportando tutto a casa, Einaudi, 2009), si fa apprezzare per la fluidità con cui lo stile – scaturito da fonte “selvaggiamente complessa” nella definizione di Tiziano Scarpa – viene posto al servizio del racconto, riuscendo ad irradiare luce, con un disincanto privo di cinismo, sul nostro presente e sulle sue criticità.

Tra queste figura il precariato che, in Italia, ha ormai esteso il suo dominio su gran parte dell’orizzonte lavorativo, dal pubblico impiego al settore privato. Una larga fetta di questo terzo stato contemporaneo è costituita dal precariato intellettuale. Capita di sentirne parlare, per lo più, in relazione alla scuola e all’università: supplenti che di anno in anno, o di mese in mese, cambiano cattedra e luogo di lavoro, ricercatori con contratti a tempo determinato e carichi di lavoro illimitati, assegnisti e borsisti in attesa di un concorso sempre annunciato e mai bandito. Ma non ci sono soltanto loro. Succede, infatti, che le grandi firme di un grande quotidiano nazionale (o le firme raccomandate benché del tutto incapaci di mettere in fila due parole) facciano ricorso a ghost writers che scrivono gli articoli al posto loro. Dalla prima all’ultima battuta. Firma esclusa. E di cosa può occuparsi uno scrittore fantasma nella torrida estate del 2001? Di tutto e niente. O meglio: di tutto il niente che c’è. Il nostro, per esempio, è alle prese con «un articolo destinato a gettare nuove ombre sulla vita politica del […] paese e seminare il panico tra gli studiosi di una branca emergente dello show-biz, la quale, per una sfortunata omonimia con una disciplina messa in soffitta con il XX secolo, prendeva il nome di Storia». Ovvero: è possibile che Ferruccio Parri, un eroe della resistenza antifascista, avesse promesso la libertà a Luisa Ferida e Osvaldo Valenti – attori di punta del cinema fascista, e aderenti alla Repubblica di Salò – in cambio di una notte d’amore con la prima? E poi: è verosimile che l’attrice, negli ultimi mesi della sua vita (venne fucilata a Milano il 30 aprile del ’45), danzasse nuda davanti ai partigiani torturati nelle stanze di Villa Trieste, a Milano? E al di là della fondatezza di quest’ultima notizia (ma in generale di qualunque notizia), qual è il discrimine per decidere se sia il caso o meno di pubblicarla?

Le pagine più importanti di un giornale, ci dice Lagioia, non sono più quelle di politica interna, di cronaca, o di affari internazionali, ma quelle che raccontano, e spesso contribuiscono a creare, lo star-system. Qualunque evento fa notizia solo se rivestito della luce spettacolare che illumina un set o un palcoscenico – e a questo proposito è impossibile non rimarcare, ad esempio, quanto spazio venga dedicato dai giornali italiani ai dietro le quinte della politica, ai retroscena di ogni accordo e di ogni mossa (quasi) a sorpresa, alle vite private dei politici, alle loro vacanze e alle loro frequentazioni, al gossip parlamentare tout court. L’informazione ha il potere di «far scaturire l’oro dal piombo, l’acqua dalla ruggine, la vita dal puro e semplice nulla». È, in una parola sola, mitopoiesi. Ma il produttore di miti sa anche di avere un divieto: non superare il punto omega, quel «confine mobile, cangiante ma di estrema importanza, il cui superamento sconsiglia alle dita di accanirsi sulla tastiera del computer. Varcarlo significa oltrepassare la soglia del senso comune e, dunque, del giornalismo». Il talento del cronista consiste nell’intuire i vari spostamenti di questo punto per poter riconsiderare le cornici in cui ritagliare, montare ed inquadrare le notizie. Nell’attesa – quanto lunga? – che qualcuno si preoccupi di controllare le fonti, il vero problema è questo: creare dei miti vendibili con profitto.

E allora, a dieci giorni di distanza dal G8 di Genova (ce lo ricordiamo?), la notizia da coltivare non riguarda la morte di Carlo Giuliani o la feroce irruzione della polizia nella scuola Diaz, ma la soffiata della solita Gola Profonda – un personaggio agonizzante che emerge tra le macerie di un milieu moribondo: il salotto culturale romano, intorno a cui si allarga la Città Eterna – sulla prima amante di Rodolfo Valentino. Da qualche parte sarebbe ancora viva, e lo scoop dell’estate non può che essere un’intervista a questa donna (o forse un uomo?) ormai centenaria, protagonista dell’iniziazione sentimentale della primo grande divo del cinema. La ricerca di questa persona è il motore principale dell’azione, l’input d’avvio di un viaggio attraverso la penisola che occupa tutta la seconda parte del libro – mentre nella prima si definiscono le ragioni che rendono indispensabile il successivo sviluppo on the road, e si delineano i contorni incertissimi dei tre protagonisti.

Della voce narrante s’è già detto qualcosa: scrittore fantasma, autore di centinaia di articoli al mese che qualcun altro firmerà al suo posto. Lui, per i lettori, non esiste, e infatti non ha nemmeno un nome. Espropriato del suo lavoro, rimane in sospeso anche rispetto al suo statuto esistenziale: «Pensai di essere io il prodotto dello specchio, non il contrario, che le mie carni fossero la soluzione di un gioco che si svolgeva lungo una superficie bidimensionale». La sua compagna di viaggio, che inizialmente egli considera solo come simulacro di una fidanzata ormai perduta, si chiama Zelda, come la moglie di Francis Scott Fitzgerlad, e come lei si fa notare soprattutto per l’instabilità nervosa. Il compagno invece, Mario Materia, è un regista che, a dispetto di un cognome così concreto, si occupa di arte invisibile: «Era uno di quelli che affittano Titanic in un Blockbuster per restituire la videocassetta dopo averla riempita di fotogrammi fantasma».

Ricorre poi, in Occidente per principianti, la rappresentazione del multiforme ingranaggio attraverso il quale si esercita il potere, la cui efficacia aumenta con la sua capacità di oltrepassare la realtà e le sue leggi, di rendersi autonomo da essa. Autoreferenziale. In precedenza abbiamo già evocato la collaudatissima fabbrica dell’informazione, ma è interessante ricordare le altre:

il mondo universitario, percorso da gelosie e scontri più o meno manifesti, e caratterizzato, come ogni cerchia chiusa, da un alto tasso di mimetismo che l’autore ridicolizza senza pietà: se in occasione di una conferenza l’ordinario di turno ha l’aspetto di un generale in pensione sicuro del suo carisma e della sua influenza, «ai lati, gli associati si [sforzano] di imitarne la compostezza e il tono monocorde, pensando forse che ricalcando certe forme [sia] possibile appropriarsi del segreto del successo», e alla fine, quando gli studenti si avvicinano al tavolo dei relatori per fare delle domande, tra i docenti di seconda fascia «ognuno [conta] a denti stretti gli insettoidi che [infestano] lo spazio dei colleghi, come se il risultato dell’addizione [possa] dire qualcosa di definitivo sui rispettivi rapporti di forza»;

la fabbrica della legge, “law firm”, ovvero uno studio legale che richiama tutti i migliori avvocati del paese per offrire consulenze alle aziende internazionali nell’ottica di un nuovo modo di concepire l’attività forense come una specie di guerra preventiva: «Prima di lanciarsi in un nuovo affare, le multinazionali contattavano una law firm. Lo studio legale cercava di capire quali leggi sarebbero state travolte dall’operazione e quali invece si potevano aggirare»;

la fabbrica della contraffazione, ovvero la masseria nei dintorni di Napoli nella quale la camorra masterizza a ciclo continuo dvd e compact disc che andranno ad alimentare il mercato dell’illegalità. Colpisce il ritratto del boss Ciccio Fracanzano (o Ciccio Fracasso, a seconda che lo si consideri malavitoso oppure attore di teatro in un passato molto remoto), anticipatore rispetto alle riflessioni sui cinematografici modelli di riferimento dei boss della camorra di Gomorra: «Quando ritenne il pubblico al completo, disse: “Ragazzi miei, avete un problema”, con l’espressione dolente di chi quel problema vorrebbe pure cercare di risolverlo, ma ahimè, non può. Molte generazioni di criminali, esattamente come gli adolescenti, erano state rovinate dal cinema». A ribadire che, giunti all’apice del mimetismo, ormai è la realtà ad inseguire la finzione, e non più quest’ultima a trarre ispirazione dalla prima.


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