
MARCO BINI
CONOSCENZA DEL VENTO
Giuliano Ladolfi editore, 2011
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La prima raccolta di Marco Bini reca in esergo un emistichio di Roberto Roversi dedicato all’inverno e allo stile, due aspetti che sembrerebbero estranei a una concezione giovane della poesia. Bini è molto giovane, in effetti, ma non si nega il lusso di partire controcorrente. Nell’inverno la neve è fredda e ardente allo stesso tempo e la scrittura viva e pensata di chi ha stile non lo può essere di meno. Basta, nel caso dell’Autore, affidarsi a qualche suo incipit. «Ancora ci
sorprende il planare a mezzaluna di una foglia»; «L’avvenire fu un bolide arrogante»; «Un mistero
rimase come appaia / il presente, d’incanto», e il bellissimo «Perché non sia la nebbia un infarto a
mezz’aria delle cose», versi che possono richiamare lo stile dei maggiori.
Quindi Marco Bini non ha paura, non teme la forza della tradizione né il suo respiro in apparenza desueto e ingiallente, forse perché ama davvero la poesia, quella che tenta di giungere alla parola compiuta partendo dalle cose e in tal modo le giustifica per sempre, dando all’esistere un abito di grazia.
Le stanze del fiume e dell’atlante, sezione introduttiva della plaquette, rappresentano l’epoca fertile e ingannevole del sogno. Non a caso tra quelle mura l’esistenza, nella prima spuria consapevolezza, si identifica con le direttrici di un libro geografico in cui le linee, meridiani e paralleli, sono pure convenzioni. E il tomo, il corpo del volume, pur agito e posseduto come oggetto, sprigiona sogni e segna di speranze la vita a venire, tanto che la conoscenza del vento, dichiarata dal titolo, sembra combaciare col desiderio profondo di un avvenire degno e possibile. Ma procedendo nella lettura, abbandonate quelle stanze, ci si accorge che il giorno adulto ha in sé «un’aria di castigo» e il costo del lavoro è in ogni caso smisurato. Il prezzo è di non riuscire a «slacciare questa lingua» per accostarsi e appartenere al mondo. Così un fare abusivo diviene la moneta con cui si paga la pura
sopravvivenza. L’onere della vita costringe al provvisorio, «tra casa e calvario», nella precarietà del pendolarismo: immagine di una condizione esistenziale riferita soprattutto a coloro che vivono sulla pelle la distanza reale tra tempi orribili e mirabili.
La raccolta, persa quasi subito l’atmosfera di sogno, si inabissa nella fuga circolare di un orizzonte di provincia, dove a volte ecco fiorire, tra le gramaglie dei luoghi e l’ingordigia dei cuori, scampoli di purezza. La poesia si presenta come epifania e unica scaturigine di senso, anche quando è una foglia morta che cade o un’impronta nella neve.
Il libro si chiude con la lucida metafora del ring: «La piazza quaggiù è il quadrato: siamo tutti stretti / alle corde […] cuciti a noi stessi» e feroci. Però nello spazio centrale ci si può ancora mettere a fuoco e chiamare: «Ma soffiami intanto il tuo nome all’orecchio: basta, non serve altro». Davanti a una combinazione precisa e viva di vocali, lo iato opaco del presente si illumina di delicatezza, si riempie di noi. E se poi si tratta soltanto di una «scena madre», pazienza.
Treni, zaini, chilometri di Autobahn (di tondelliana memoria) verso il «cobalto del Baltico» non portano alla meta e inscenano o presumono comunque un ritorno, perché nell’inverno «Viene l’ora di portare le ossa a crepitare contro il fuoco; / quando il sole scende al primo piano e la casa / è una meraviglia di arancione». Nell’inverno lo stile è tutto.
Emilio Rentocchini
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Nell’inverno lo stile è tutto
(Roberto Roversi)
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Da «STANZE DEL FIUME E DELL’ATLANTE»
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Ci potevo giocare ore ogni giorno
o aprirlo a casaccio, farne un cuscino
o una capanna, scoprire persino
una Germania in più del necessario.
Un dono di mio padre il primo atlante.
Capii il senso di “provvisorio”: era
l’anno millenovecentonovanta,
ne usciva una ogni mese di edizioni.
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Sfogliarlo, tanto bastava, poi tre…
due… uno… iniziava la missione
al massimo i motori, paralleli
e meridiani il pianeta mostravano
suddiviso in settori, ed «è bellissimo,
è piccolo ed è blu», tra un polo e l’altro
si apriva lo scenario. Mi sognavo
da grande casco e scafandro, astronauta.
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da «IL COSTO DEL LAVORO»
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Ogni volta è come mandare un vetro in frantumi
in un dato frangente, di fronte all’evidenza
di una rotazione nuova della Terra, e fuggire
non si può all’infinito, sgattaiolare come Ottobre
Rosso, sotto il pelo della notte; e perché non farsi ago
da sotto la trapunta, trapassare una molecola
alla volta, spuntare dalla parte del sonno
più sconvolta per disarmarsi nel mattino?
Perché quel che ti tocca è incontrare ancora la luce,
quel che ti importa che il giorno non sia troppo castigo.
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Se non l’avessi visto coi tuoi occhi, sarebbe soltanto
un lontano ricordo della naia, o un relitto della Storia;
e invece li hai visti lì, intermittenti ed ebeti negli sbuffi
dei loro fiati, allineati nel parcheggio, lo sguardo fisso
in basso dei cercatori d’oro, serrando forte i denti
e trattenendo la pelle d’oca.
A casa si è fatto giorno
col trillo della sveglia e il gargarismo della caffettiera;
al cantiere col tuonare di un portone e lo sconquasso di lamiera.
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Poteva venirti in mente la scena di un vecchio film,
o lo schema sul libro che usavi a scuola; un veliero
che punta a occidente, la stiva colma di africani, la prora
in bilico sul mare; oppure una petroliera, in partenza da Bassora.
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Decelerazione, arresto, dondolio delle masse.
Un passo fuori e l’aria è un traffico di elettroni da non credere
all’esistenza degli interi ma allo scontro tra gli inerti
buttati a manciate nel vento di ronda sui viali.
Solo lo slalom dei fari colonizza la troposfera
e ogni cosa impazzisce per raggiungere il suo zenit.
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Non si scherza con il sole: di questi tempi è il più costante
tra i custodi; fa un giro vasto attorno al globo
a controllo e protezione del prossimo suo pasto.
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Finisce che la misura degli angoli è l’unica possibile
geometria concessa nel pomeriggio in svolo rapido;
a raccontarla è complessa un’assenza
di angeli da aiuola,
il digrignare di griglie
e radiatori – come cani ronzano in muta –
ovatta sospiri e sollievo.
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Sgomma a tutto gas
la vita in libera uscita va presto chiamando
il solito bicchiere a rimettersi in sesto, a Francoforte
poco oltre Modena;
qui anche un rampicante
sfibra nel dovere, ha bisogno di una sedia.
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Ancora ci sorprende il planare a mezzaluna di una foglia,
appena staccato, ancora un po’ storditi dalla luce piena
di settembre, e il suo posarsi come una schiena inarcata
e dolorante, sull’asfalto frequentato di questo centro direzionale.
Crederesti più plausibile la caduta dei calcinacci in un posto come questo
o lo sfogliarsi del tuo viso alla mattina, maneggiando una lametta.
E invece, restiamo lì impalati, a bocca spalancata,
al centro del nostro mondo, come trapassati da un equatore,
e vorremmo quasi tenerci per la mano, osservando quella foglia
che, in fondo, ognuno le si è già per un istante paragonato.
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da «CONOSCENZA DEL VENTO»
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L’avvenire fu un bolide arrogante.
Sollevò un muro d’acqua al suo passaggio,
neppure per scansarci sufficiente
fu il tempo di mostrargli pari pari
il medio in direzione del lunotto.
Non trovammo un motivo convincente.
Solo che non si forma là davanti
come una supernova ciò che accade,
ma più simile a una cometa ostenta
alle spalle una storia: progredisce,
ci raggiunge, un istante ci coesiste
poi di noi va oltre. Semplicemente.
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da «IL COSTO DELLA VITA»
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Piuttosto strano questo agosto, forse tipico tedesco,
che ci corre accanto sull’Autobahn infestata
da fantasmi di storie, da ragazze sui cartelli,
pollice e indice vicini rivelano che «raser
sind so sexy», come a dire sono brevi,
per chi corre, dell’atto il tempo e l’ingombro.
Sbolle al tramonto l’uscita Norimberga, il cobalto
del Baltico ancora non straripa dalla linea d’orizzonte.
Strano, come detto: potremmo levarla in un gesto,
sbriciolarla sull’asfalto come una striscia di silicone,
spaccare di netto il mondo in due. Senza un cigolìo
si scoperchierebbe il pianeta; ci sarà apparso naturale,
vedere tutto sparire nella fessura aperta, il cielo
da una parte, la terra dall’altra, ognuno per la sua strada.
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12 SETTEMBRE 2001
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Sei riuscito tutto a un tratto a metterti alle spalle i volti
corrucciati l’audio che va e viene la tensione della diretta
mentre godi della quiete tardo estiva e fili in bicicletta.
Ti sbilancia un refolo di vento che solleva e rimescola
polvere scontrini accartocciati e mozziconi di sigaretta.
Pensi alla faccenda della farfalla in volo giù in Giappone,
sogghigni e credi che sia un’onda d’urto che viene da lontano.
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Non ti chiedo un rimborso in denaro
per il disturbo, solo quel briciolo di tempo
mi occorre che adoperi la sera
tra la doccia e le lenzuola per tastare
il polso alla tua vita inondato
dalla luce dello schermo, un apostolo.
Ti chiedo questa cosa: riuscirai
a non farti prendere dal panico,
intendo alla prospettiva delle cose
che domani tiene in serbo per noi?
Non sentirti tuo più in là del pianerottolo,
rientrare nel personaggio, affiancare
come sempre il cucchiaio e la forchetta,
raccogliere i tuoi avanzi e ricomporli dopo cena.
Ritmo, fegato, pazienza: questo non ci manca.
Potremmo farne a meno, noi come pellerossa
carponi sulle traversine, se il minimo sussulto
non ci allarmasse nel battere dell’ordinario?
Se non fossimo sempre pronti a farci un altro goccio.
Se non ci ficcassimo in bocca spazzolino
e lima, per lavarli, i denti, e affilarli.
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Una lezione di vita l’ultima del Boss,
o sulla vita – che è già qualcosa in più –
di quelle che immortalano l’andazzo;
dice in pratica che troppo ci si attende
e che brucia addosso ogni cosa
che abbiamo, ancora volendo volerla,
che però si diminuisce sempre un pezzo,
si cede e si decede, davvero, ci si esaurisce
e coraggio ce ne vuole anche a desiderare.
E che invece anche un gancio cielo
può essere una spinta al paradiso, ricordandosi
però di un bel sorriso e di un «ciao»
con la manina quando – più sintetico l’inglese –
il sangue con un fiotto schizzerà sul pavimento.
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Ci sta che quasi niente corrisponda
alla favola di noi che dovremmo recitare
a pieno fiato scambiandocela in dono
o reciproco anatema. Ci sta pure
a questo punto di scomodare gli spiriti
migliori – se ne abbiamo – con la preghiera
di diffonderci oltre il nostro senso stretto.
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Il mondo è un manufatto insistente tra le dita,
mentre il tempo va di lima: stempera gli spigoli
e ottiene la misura auspicata, una storia al singolare.
Così si impara a stipare di niente i granai, a mulinare
i palmi alla corrente per stringere nelle mani solo vento,
un vuoto da graffiarsi tra i capelli, con le unghie.
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La piazza quaggiù è il quadrato: siamo tutti stretti
alle corde sul ring, eretti, audaci, cuciti a noi stessi,
ognuno è feroce più che può; siamo obbedienti.
Mettiamoci a fuoco: in mezzo c’è spazio e più scaltro
è il tempo a non perdere tempo in finte, controfinte.
Puntiamo al centro, forse non per attrazione, ma soffiami
intanto il tuo nome all’orecchio: basta, non serve altro.
Poi è un ritorno al perimetro, fine del round, di nuovo
ognuno all’angolo. Eccola girata, la nostra scena madre.
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da «CHIUSURA DEGLI INDICI»
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Perché non sia la nebbia un infarto a mezz’aria delle cose,
che tutto già pesa da sgocciolare fino a terra.
Non sia spazio, spazio ancora, superflua distanza
cosparsa tra i viventi. Non sbandiamo, teniamoci d’occhio.
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Non c’è luce che non passi dal fondo del tunnel
prima di investire la pupilla all’altro capo
col respiro che si allarga rinnovandoci la pelle.
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Viene l’ora di portare le ossa a crepitare contro il fuoco;
quando il sole scende al primo piano e la casa
è una meraviglia di arancione per la retina
vorremmo liberarci dai contorni nella stretta,
lasciare lo zaino a terra e correre alle braccia che consolino
queste spalle troppo forti ancora da non servire a niente.
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Marco Bini è nato nel 1984, vive e lavora a Vignola (Mo). Si è laureato in Lettere Moderne all’Università di Bologna.Oltre a scrivere poesie, saggi e traduzioni, è molto attivo nell’associazionismo culturale del suo territorio, e collabora con l’organizzazione di Poesia festival in provincia diModena. Fa parte dello staff del progetto editoriale “Schiaffo edizioni”.
Suoi testi sono apparsi sull’antologia Pro/testo (Fara edizioni, Rimini 2009) e sulla rivista «Ali» (Edizioni del Bradipo, Lugo di Romagna). Ha vinto il Premio De Palchi–Raiziss 2010 di Verona e la sezione «Cantiere» del Premio Renato Giorgi 2010 della rivista «Le Voci della Luna». Collabora con la rivista «Farepoesia» di Pavia.

5 risposte a “[Novità editoriali / Under 30] Marco Bini – Conoscenza del vento (Giuliano Ladolfi editore, 2011)(post di natàlia castaldi)”
ecco, questa la dico Poesia
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Autore molto interessante. Noto una capacità di far convivere una certa liricità al graffio, con sfumature
perfino ironiche. Tanti i versi degni di nota, come evidenzia Emilio Rentocchini, che rendono preziose queste poesie e che riflettono una purezza, non acquisita ma di condizione.
vincenzo celli
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[…] Giammei, Anna Ruotolo, Michele Ortore, Alfonso Maria Petrosino, Sergio Garau e Marco Bini. Per ciò che concerne i testi di Giovanni Catalano, Luigi Bosco e Luciano Mazziotta, in quanto […]
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[…] Giammei, Anna Ruotolo, Michele Ortore, Alfonso Maria Petrosino, Sergio Garau e Marco Bini e Giuseppe Nava. Per ciò che concerne i testi di Giovanni Catalano, Luigi Bosco e Luciano […]
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[…] Giammei, Anna Ruotolo, Michele Ortore, Alfonso Maria Petrosino, Sergio Garau e Marco Bini, Giuseppe Nava e Marco Aragno. Per ciò che concerne i testi di Giovanni Catalano, Luigi Bosco […]
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