Nel mio paese io mi chiamo Dino Santella, ho trent’anni, insegno inglese alla scuola superiore, l’anno scorso un mio alunno di quindici anni si è buttato di sotto e oggi mi metto paura sotto alla stazione della metropolitana: mi hanno stracciato la giacca, mi sono sporcato i pantaloni. Mi alzo da terra e vedo se tengo ancora il telefonino in tasca. La faccio questa telefonata ai Carabinieri?, meglio la Polizia. Cioè no, è meglio che mi rimetto il telefono in tasca, anzi chiamo la segreteria della scuola e dico che non ci vado stamattina che mi sento male, ho la febbre, secondo me mi sono preso l’influenza nuova, quella che se tu tieni già problemi muori ancora prima del previsto. Ah, ho deciso: oggi me la prendo tutta per me. Vado a comprarmi una giacca nuova.
Nel mio paese c’è il camerino del negozio di Via dei Mille, c’è Peppe che ci lavora da dieci anni. Peppe è il mio ragazzo, Peppe è il mio compagno, mio marito, mia moglie, la mia fidanzata e il mio fidanzato, Peppe è ’a vita mia, cioè, non è come la canzone, ’a vita mia, nel senso che è tutto quello che tengo. Peppe mi dice «ciao, ma che ci fai qua a quest’ora?», io mi metto a ridere come a che, «sto in sciopero», gli dico.
«Ma ch’é fatto? Che è successo?».
«Niente Pe’, niente. Mi sa che so’ venuto a comprare una giacca».
«Vabbuò, visto che stai qua, misuratelle ’stu cazone», mi dice Peppe. E mi porta dentro il camerino, con un paio di pantaloni a scacchi e una giacca nera. Peppe chiude la tenda e viene con me dentro, una ragazza sta fuori aspettando, con una gonna plissettata in mano. Ho paura che gli faccio perdere il lavoro, lui insiste: «Me vuo’ dicere ch’é succieso?». Se il suo capo se ne accorge che mi sta parlando nel camerino, con i pantaloni a scacchi rossi mezzi calati giù, lo licenzia. Dico «’o sce’, che fai?», e lo butto fuori.
Oi vita, oi vita mia, oi core, e chistu core, si stato ’o primm’ammore, ’o primmo e l’ultimo sarrai…
Nel mio paese tengo una faccia, secondo me tengo una faccia che Peppe fa: «Ma che hai? Nun é mai fatto accussì». Nel mio paese io vado a trovarlo il mio fidanzato Peppe, sta al lavoro, lui ci deve stare per forza al lavoro, dopo ’sta cosa di stamattina sono io che non tengo voglia di lavorare, non tengo manco voglia di dire ciao a nessuno, voglio andare da lui. Arrivo così, all’improvviso. Pe’, jammucenne ’o mare, mò a fine aprile ci sta già un sacco di sole. Dove voglio andare? Ma andiamo a Varcaturo, no? Mi abbronzo e vado in spiaggia, prendo il sole e leggo quel bel libro che mi hai regalato tu. Come quale? Quel libro… Quel libro che tengo da tre anni sul comodino, e oh, Pe’! e ja, vieni con me, che da solo mi faccio la palla, ma che te ne fotte del tuo capo?, dici che ti è venuto mal di stomaco, dici che c’hai la fidanzata che sta male, mammà che si è rotta una gamba, papà che sta con le flebo al Cardarelli. Ma no, che vai a pensare? Non mi andava di andare a scuola, tanto quelli mica sentono la mia mancanza, lo sai che non mi sentono. La giacca, il chiodo che sporge dalla porta all’ingresso, lo sai pure tu, una volta ti sei graffiato, quello così è rimasto… No, te lo giuro, credimi, non è successo niente, voglio solo che ci prendiamo un giorno per me e per te, oggi, non domani, non dopodomani, accontentami, levati questa faccia di commesso che tieni, ti aspetto a piazza de’ Martiri, fra mezz’ora. Ma che vuoi che succeda? Nel mio paese, nel nostro paese si dimentica subito tutto. Quella volta ti ricordi? Ti ho dato un bacio e ti tenevo la mano, venivamo dal mare, si schiattava di caldo quei giorni di agosto, era tardi assai, il mare ci stava dicendo che ce ne dovevamo andare. ’Sto fatto, il sole che se ne scende alla fine del mare, cioè, il tramonto, era tardi…
Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è nu sole amaro…
Nel mio paese siamo due uguali a due qualunque, chisto è ’o paese do sole, chisto è ’o paese do mare e sono due come noi, che non pensano che sono come noi, ti afferrano da dietro, ti tengono le braccia bloccate, per darti bene bene un cazzotto forte forte nello stomaco, ti fanno sputare il sangue ricchione che tieni in bocca. E se stai per urlare tu non lo fare, agliutt’ ’e mille colori che stanno tutt’attuorno e così sai che tuo padre non lo vede stasera al tiggì 5. Te lo ricordi, Pe’? Pare come fosse mò, invece era tre anni fa. Ecco Pe’, stammatina, una cosa così, è successa un’altra volta. Ma no, non ti preoccupa’, nun te ’ncazza’, sto bene, solo un po’ così, un po’ strano. Ce la faccio, stiamo insieme oggi, non te l’ho mai detto che tengo paura quando spegni la luce sopra al comodino? Ho paura del buio, però non ti dico niente sennò mi pigli per fesso, mi sfotti lo so, mi dici che sono un criaturo. No, no è che mi dispiace, mi dispiace ’sto fatto, che me so’ abituato a piglia’ sputazzate ’nfaccia.
Nel mio paese, nel mio paese io mi sento come se veramente stessi a casa mia, lo scarico del bagno che non funziona, lo stendino con i panni nel corridoio è tutto storto e i piccioni cagano sopra al balcone tutto l’anno. Oggi sono andato al mare ma tu Pe’ non ci stai. Ho un costume rosso che al mio amico Gianni gli piace assai, pure lui ne tiene uno che gli sta daddddio, gli sta con il pesce che si vede grosso, sta messo bene a pesce Gianni. Sicuro venerdì prossimo mi squillerà il telefono un’altra volta e sarà sempre Gianni. Io lo so che sono stanco, ho lavorato tutta la settimana prima di Pasqua, ma pure lui, nel gabbiotto dell’autostrada, tutto il giorno. Oggi quello della Smart rossa ha pagato il pedaggio accarezzandogli la mano, per sbaglio. Lui ha sorriso, perché gli ha fatto piacere questa cosa. Gli ha detto frocio in romanesco e poi, con una sgommata, se n’è andato. C’è rimasto male, non ha fatto niente di male, ha sorriso ancora e ha allungato la mano sotto lì, nella fessura, per prendere il pedaggio della prossima macchina. Ma che c’entra Gianni mò?
Non ho voglia di andare a ballare, fare tardi. Peppe dorme presto la sera, lavora anche la domenica a volte… Ma che c’entra Gianni mò?
Guardanno ’o mare pensa a Maria ca’ mò nun ’nce sta cchiù. So’ sulo tre anni ma ’nce penso tutte ’e sere, passa ’o tiempo e nun me pare ’o vero…
Nel mio paese io mi chiamo sempre Dino Santella e mi alzo la mattina abbastanza presto, con gli occhi ancora chiusi dal sonno vado in cucina e metto a fare il caffè. Subito mi vado a buttare sotto la doccia. Ci metto due minuti, mi schiatto l’accappatoio addosso, ce la faccio a ghì a ghì a spegnere il fuoco sotto la macchinetta che si sta sporcando già il fornello. Sto a mostro, ieri abbiamo fatto tardi a casa di Marialuisa, abbiamo giocato a Tabù. Ci penso mò, mò che mi sto pigliando il caffè macchiato con il latte scaduto. Mannaggia a me, non me ne sono accorto, che capa di cazzo che tengo, ma perché ieri a Tabù è uscita la parola latte, non si poteva dire manco bianco, manco mucca. Mi sono messo davanti a Internet cinque minuti, prima di vestirmi, voglio leggere le notizie di Repubblica on line, sto facendo tardi e mi devo muovere, oggi vedo solo i titoli degli articoli, sto in ritardo.
Nel mio paese io vado a insegnare l’inglese nell’Istituto Tecnico Industriale Statale Galileo Ferraris, è un lavoro che mi piace, fare l’insegnante, però è difficile al Ferraris, non mi stanno mai a sentire quando spiego, se faccio un’interrogazione e metto 4 a Mario, lui dice che la prossima volta me lo mette in bocca, e così gli metto 10. Ieri così ha detto, gli ho fatto il rapporto sul registro e ho chiamato il preside, ma questo mi pare Iacchetti a Striscia la notizia, dice «Santella, so’ ragazzi».
Fa freddo stamattina, fa un bucchino di freddo stamattina e non è nemmeno aprile, e se mi fermano sotto alla stazione Quattro Giornate, e se con un punteruolo in tre mi vogliono bucare le palle, e se mi danno tre schiaffi uno a testa, e se uno mi dice che mi devo comportare bene a scuola e se l’altro mi sputa in bocca e mi dice che non devo mettere in difficoltà ’e guagliune e se l’ultimo mi piglia per la giacca mi sbatte a terra e mi fa «é capito? ’stu ricchione ’e merda», io penso che faccio tardi a scuola, penso che devo saltare la prima ora con la terza F e non posso nemmeno andare da Peppe al negozio di via dei Mille, che tre anni fa gli hanno dato una coltellata nello stomaco, venivamo dal mare, era quasi scuro e il sole s’era tuffato dentro al mare e noi ci tenevamo per mano, stavamo andando a casa.
Chillo va pazzo pe’ te, te penz sempe, chillo va pazzo pe’ te, nun s’annammora, nun s’à sapute scurda’ de’ vasi tuoi, te sonna senza durmì si ’o core suoio…
(tira fuori un coltello). Nel mio paese ti senti davvero a casa tua, anche se sei un omosessuale, anche se sei una lesbica, e anche se sei gay. Nel mio paese tutta la gente ti rispetta, i colleghi al lavoro, la tua famiglia ti rispetta, ti vuole bene per quello che sei e quando incontri gli amici di tanti anni fa non cambiano strada se li saluti. Nel mio paese se tu sei trans lo trovi subito un lavoro perché nessuno ti discrimina per quello che fai nelle lenzuola o per il tuo aspetto che loro dicono che è a metà tra una bambola di gomma e un pugile dopo un incontro, e lo Stato ti dà anche tutti i soldi che ti servono per diventare donna o uomo, a seconda di come sei nato e di come ti senti dentro.
Nel mio paese pure se hai 15 anni, e pure se i tuoi compagni di scuola ti sfottono perché tieni la penna rosa e un po’ di fondotinta, tu sai che lo fanno solo per giocare perché lo sanno tutti che siamo tutti uguali e la legge ti protegge da quelli che ti vogliono accoltellare, da quelli che ti vogliono stroppiare di palate, sfottere insultare, sputare, screstare, scorticare, schiaffeggiare, ferire, abbandonare, scuoiare, infamare, denigrare, cancellare, violentare, che mica stai qua solo per inculare o farti sbocchinare, che mica esisti solo per farti sodomizzare o fare pompini, lo Stato ti protegge da tutti quelli che a forza di chiamarti ricchione ti fanno buttare da un balcone della scuola a soli 15 anni.
Nel mio paese, se vieni dal mare col tuo fidanzato e hai 27 anni, sei tutto abbronzato e adesso è quasi estate, un’estate al mare con gli ombrelloni oni oni ricchioni, se gli dai un bacio mentre il sole muore già, non è vero che qualcuno non sente pietà, ti chiamano anche l’ambulanza dopo mezz’ora, e il venditore di granite dice «toglilo da qui», ma te lo dice per favore, che deve vendere quelle buone, rinfrescanti, ghiacciate grattachecche colorate.
Nel mio paese io mi chiamo ancora Dino Santella, ho sempre 30 anni e insegno inglese al tecnico industriale Ferraris e ieri mi sono messo paura sotto alla stazione della metropolitana Quattro Giornate. Nel mio paese c’è il camerino del negozio di via dei Mille, ci stava Peppe che ci lavorava fino a tre anni fa. Peppe era il mio ragazzo, il mio compagno, mio marito, mia moglie, la mia fidanzata, il mio fidanzato, Peppe era ’a vita mia e il mio paese dice che è morto per sbaglio, per mano di quattro delinquenti senza Dio, senza Stato, senza Amore.
Eh, nel mio paese tu ti senti bene, ti senti protetto, ti senti proprio uguale a tutta la gente che sta nel mondo, pure se sei ricchione.
Nel mio paese io mi chiamo Dino Santella (disperato, sta per ammazzarsi). Nel mio paese io mi chiamo Dino Santella, e voglio vivere, vivere solo nel mio paese (butta il coltello a terra, esce di scena).
8 risposte a ““Nel mio paese”, racconto di Luigi Romolo Carrino”
Mi piace la sua scrittura, la sua maniera di raccontare quello che altri si limitano ad accennare.
bravo.
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stasera, abbiamo un ospite con i fiocchi !
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Bravo.
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Un piacere leggerti (diciamo così).
Sempre più materiale per scriverne, al mio paese.
Bravo e grazie.
clelia
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ieri ho letto il racconto, scritto in una nota condivisa su facebbok da un’amica. dopo tre minuti avevo già scritto a luigi di darci il racconto per il blog. Grande penna
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grazie per l’ospitalità
un saluto a tutti voi (uè enzo campi!, vecchia ciabatta:))
Luigi
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Molto, molto bravo.
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concordo.
grande penna.
adoro i suoi scritti.
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