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La rivoluzione algoritmica delle immagini. Arte e intelligenza artificiale – Intervista a Francesco D’Isa (a cura di Giulia Bocchio)

Che impatto, o ruolo, avrà l’intelligenza artificiale nell’arte e nel processo creativo? La realizzazione di immagini digitali evocative, stilisticamente originali (e qui qualcuno storcerà il naso) non è del tutto impossibile, oggi possiamo creare un’opera attraverso un prompt, che è un codice semantico dalle combinazioni infinite, ma questo non significa che abbandoneremo gli strumenti tradizionali; chi usa matite, chine, tele, macchina fotografica non smetterà automaticamente di servirsene, né sarà obbligato a farlo.
Il progresso tecnologico è ormai capillare, corre veloce nelle nostre vite, e va riconosciuto ed esplorato, anche per constatarne i limiti. Da sempre, nel corso dell’evoluzione, entrano in scena strumenti nuovi, in grado di mutare le nostre percezioni e il nostro giudizio, non è una grossa novità, ma le possibili controversie o derive etiche sono sempre legate all’uso che noi esseri umani ne facciamo, manipolandone i simboli.

Francesco D’Isa, filosofo, artista digitale (ha esposto in gallerie e centri d’arte contemporanea internazionali), autore e direttore editoriale de L’Indiscreto, ha di recente pubblicato per Sossella Editore un articolato saggio dedicato all’IA e, in particolare, alle tecnologie text-to-image, La rivoluzione algoritmica delle immagini. 
Il nostro dialogo inizia proprio dal suo ultimo libro.

 


Ho molto empatizzato con quel tuo Non volevo scriverlo. Questo è uno di quegli aneddoti che in un futuro prossimo e indefinito contribuirà a smentire o a dilatare l’utilità di un saggio dedicato all’intelligenza artificiale e in particolare alle tecnologie text-to-image. Il fatto è che l’evoluzione di questi strumenti, che hanno a mio avviso un potenziale enorme e applicabile a più settori, non solo a quello artistico (sogno un’IA che mi faccia un check up completo della salute tutte le mattine), corre veloce e noi esseri umani non sappiamo maneggiare sempre con audacia e saggezza una tecnologia che è parte integrante delle nostre vite, tecnologia evoluta di cui però sappiamo poco, pur parlandone molto. Il tuo libro contiene nel titolo la parola rivoluzione. Siamo davvero pronti, dal momento che il dibattito intorno all’uso dell’IA per fare arte è molto polarizzato e la tensione dialettica intorno al tema comprende anche l’insulto?

No, non siamo pronti – e con la mia ipocondria non lo sono neanche a un’IA che fa un check up completo della salute tutte le mattine. Lo dimostriamo preoccupandoci dei problemi sbagliati, con le noiose ed esplosive polemiche riguardo alle IA generative che producono immagini, video, testo e audio, mentre si ignorano o quasi quelle per uso militare. E non lo siamo quando, soprattutto in ambienti come il fumetto e l’illustrazione, facciamo una guerra spropositata a chi usa questi strumenti, con basi concettuali a dir poco labili basate sull’idea di “furto” e “assenza di creatività”. Purtroppo persino alcuni intellettuali si piegano ad argomenti e toni di questo livello. Si tratta di fole che ci distraggono dai veri problemi delle IA generative, per i quali il copyright che molti invocano è una falsa soluzione, anzi un danno ulteriore. Mentre ci sono ancora persone che considerano l’utilizzo di IA in certi settori creativi “tabù”, le software house “etiche” come Adobe, che crea le proprie IA con dati proprietari, stipulano accordi con società come OpenAi e Runaway, per non restare indietro nello sviluppo dei loro prodotti. I problemi lavorativi – che nel settore creativo credo molto sopravvalutati, perché sono altri ed esistevano da prima delle IA – non saranno risolti con scambi economici tra aziende tech e grossi detentori di diritti, ma rendendo questi strumenti più aperti ed accessibili.

Le IA TTI vengono spesso criticate anche da chi non le usa. C’è intorno alla manualità dell’artista qualcosa di ultraterreno che non potrà mai essere sostituito dalla freddezza di un macchina, da tecnologie che elaborano e restituiscono immagini grazie a dati surrettizi che si rifanno a quelle stesse opere d’arte che qualcuno dietro un pc vorrebbe emulare. Credo che non ci sia nulla di divino in tutto questo, la creatività è un processo mentale ed emotivo che può esprimersi attraverso i mezzi più disparati, non c’è meno dignità espressiva se ciò che si intende trasmettere è autentico, viscerale. È una questione di esplorazione. E ce lo ha insegnato bene l’arte contemporanea. Duchamp, per esempio, ha a suo modo disintegrato la secolare fiducia riposta nella qualità oggettiva che si era instaurata fra valore artistico e valore estetico, dimostrando che sono le convenzioni a influenzare giudizio e percezione e che se emani l’intenzione giusta, se la dirotti verso un certo orizzonte di senso, tutto può diventare arte, senza per forza depauperare il lavoro di altri artisti e artiste… 

Le TTI vengono criticate sopratutto da chi non le usa. Chi le utilizza per un po’ senza limitarsi a esplorarne qualche funzione al solo scopo di confermare i propri pregiudizi sa per esperienza che  per ottenere dei risultati accettabili serve molta creatività. Senza nulla togliere al valore dell’artigianato, l’idea che la manualità sia una condizione necessaria per l’operato artistico era già vecchia secoli fa. Da tempo gli artisti demandano parte del proprio lavoro ad altri umani o a macchine, non c’è nulla di nuovo. L’idea che con le IA la situazione cambi si basa su di un’errata antropomorfizzazione dello strumento, come se questo fosse in grado di fare arte (qualunque cosa voglia dire) in autonomia, seguendo una propria volontà. Questo lo può pensare in buona fede solo chi non conosce né usa questo strumento.

 

 

Midjourney mi tiene compagnia, o meglio, tiene compagnia a quella mia parte di cervello che pensa per immagini. E quando pensi per immagini non saper né disegnare né dipingere è seccante, personalmente sopperisco attraverso la scrittura creativa, ovvero con le parole, ma non è lo stesso linguaggio, non ha lo stesso impatto. Eppure qui il rapporto fra pensiero, tecnologia e immagine è importante in termini artistici ed estetici; il prompt richiede la costruzione di una sintonia tra sensibilità personale, semantica e rapporto input-output e non è un processo così semplice o immediato. A mio avviso una è una semplificazione, da parte di alcuni, sostenere che le immagini autogenerate dall’IA siano solo casuali, un patchwork discutibile di elementi del dataset etichettati in un certo modo; è vero che le combinazioni possibili per arrivare a un’immagine sono potenzialmente infinite, ma trovare quella versione, suggerita dalla propria fantasia/ispirazione è complesso, richiede tempo, pazienza, conoscenza. Non è facile, anche perché questi strumenti sono ancora limitati. Tu che ne pensi?

Che le immagini generate dall’IA siano un patchwork discutibile di elementi del dataset non solo è una semplificazione, è proprio falso. Inoltre, come testimonia il tuo utilizzo, queste tecnologie possono essere inserite in una prassi creativa anche da chi non possiede alcuna competenza artigianale. Non sono tra le persone che credono che le IA democratizzeranno la prassi artistica, anzitutto perché usarle richiede del denaro e dunque purtroppo c’è sempre un filtro all’ingresso. Di per certo però ampliano l’accesso alla produzione di immagini, includendo persone prive di educazione o capacità manuale. Questo non significa che non ci sia più bisogno di creatività o di una certa educazione all’immagine per ottenere dei buoni risultati – e qui crolla di nuovo l’idea di democratizzazione – ma senza dubbio il bacino di accesso si allarga. È una buona notizia per persone come noi, con una mentalità visiva ostacolata dall’assenza di adeguate competenze artigianali, e (apparentemente) una cattiva notizia per chi invece queste abilità le possiede, perché perde un primato. In realtà penso che alcune di queste persone non abbiano molto da temere, perché la storia ci ha insegnato che la produzione industriale ha spesso valorizzato l’artigianato, danneggiando per lo più quello di livello medio-basso, che ha poco da offrire quanto a valore aggiunto ai prodotti ottenuti mediante la parziale automazione del lavoro.

Ma chi crea davvero l’opera? All’interno del libro riporti l’esempio artista/committente. Tu scrivi: “Un parallelo interessante, che però vive di un errore comune a molte delle analisi sulle IA: l’antropomorfismo, che in questo caso consiste nel porsi davanti alla macchina come se fosse un artista umano a cui commissionare l’opera. Le TTI però non sono un essere umano con una volontà propria, ma uno strumento in continua evoluzione con competenze del tutto diverse dalle nostre”. Perché a tuo avviso, da un punto di vista filosofico, umanizziamo la tecnologia?

Purtroppo l’errore è stato fatto a monte quando abbiamo deciso di chiamarle “intelligenze artificiali”. Questi strumenti non sono gli androidi a cui ci ha abituato la fantascienza, ma, appunto, degli strumenti, pieni di potenzialità e di limiti. Se umanizziamo la forma di una nuvola o se vediamo un volto che ride in una linea e due puntini, è evidente che non potremo che umanizzare una tecnologia nata per imitare quel che consideriamo umano per eccellenza, il linguaggio. Sbagliando peraltro, perché il linguaggio abita anche il regno animale e vegetale. Eppure non possiamo fare a meno di considerarci misura di tutte le cose, come abbiamo sempre fatto. Queste tecnologie sembrano fatte apposta per essere umanizzate – e qui sta l’inghippo. 

 

 

Veniamo alla complessa questione del copyright. La tua posizione è nota e l’hai esplicitata concretamente anche attraverso la pubblicazione di Sunyata, opera rilasciata in pubblico dominio, chiunque adesso può potenzialmente e liberamente modificarla, copiarla, utilizzarla anche con finalità commerciali senza la richiesta di alcun permesso. Questa scelta conserva qualcosa di etico e di commerciale al tempo stesso. Il diritto d’autore, e il suo riconoscimento, è certamente un tema che di fronte alle rapide evoluzioni dell’IA, ci pone di fronte a riflessioni che sono soprattutto legate al lato economico della questione, che sembra ormai essere l’aspetto più preponderante…

Molti studi ci suggeriscono da tempo che le attuali normative in merito al copyright non avvantaggiano affatto gli autori e le autrici, ma solo grandi aziende e qualche artista molto celebre. È un dato facilmente osservabile se prendiamo in considerazione quanto guadagnano gli autori coi diritti: ce lo insegna un tabù infranto di recente in merito ad alcuni titoli di narrativa candidati al premio Strega. Con le IA in particolare appellarsi al copyright lo trovo grottesco. Un pagamento adeguato a chi fornisce dati per sviluppare tecnologie basate su miliardi di immagini o testi è irrealizzabile. I contributi individuali sono troppo piccoli per giustificare un compenso significativo, come ad esempio quello simbolico di circa 0,01 euro per immagine proposto da Shutterstock. Anche pensare di privilegiare i dati di alcuni rispetto ad altri mi sembra scorretto, considerato che sono tutti necessari per il funzionamento del software; si tratta inoltre di un modello che arricchirebbe solo qualche nome celebre. Questa opzione non presenta alcun vantaggio per gli artisti emergenti che hanno scarso potere contrattuale e sono spesso costretti ad accettare condizioni meno vantaggiose, facendo poco gli schizzinosi su quali diritti vendono. Possiamo allora immaginare un rifiuto globale a far parte del dataset, un’idea che oltre a essere irrealistica non tiene conto che le IA basate su dataset proprietari possono influenzare il mercato creativo tanto quanto quelle più aperte. Sono sufficientemente potenti. Il sogno di alcuni che queste tecnologie resteranno marginali grazie al diritto d’autore è a essere generosi ingenuo. Inoltre un dataset a pagamento ridurrebbe la diversità delle aziende in grado di sviluppare queste tecnologie, aumentando i costi e limitando la concorrenza. Ma soprattutto, come non mi stanco di ripetere, l’effetto più importante è a livello sociale e culturale: è essenziale che le tecnologie riflettano una vasta gamma di voci per evitare bias culturali. Se i giornali di sinistra non faranno parte del dataset, avremo IA di destra e viceversa. Le energie di chi si accanisce sui social se vede il fumetto di tizio o caio fatto con IA (sacrilegio!) sono del tutto sprecate: farebbero bene piuttosto a combattere per delle IA aperte, pubbliche e liberamente modificabili. C’è chi addita questa ipotesi come utopica e forse lo è, ma certo è meno assurda di pensare che queste tecnologie scompariranno grazie ai diritti d’autore, o che sconfiggeremo il capitalismo grazie a uno dei suoi più celebri dispositivi, il copyright.

 


In copertina e lungo il testo alcune delle opere realizzate da Francesco D’Isa con l’uso dell’IA


 

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