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Pensa a quanta strada abbiamo fatto: McGlue, la novella d’esordio di Ottessa Moshfegh

 

Di Maria Oppo

 

 

Gli uomini possono apparire detestabili come società per azioni e come popoli; furfanti possono
essere, sciocchi e assassini; gli uomini possono avere volti ignobili e insignificanti; l’uomo ideale
tuttavia è una creatura tanto nobile e splendente, tanto grandiosa e luminosa che sopra ogni
macchia ignominiosa tutti i suoi compagni dovrebbero affrettarsi a gettare i loro manti più
preziosi.
Herman Melville, Moby Dick

 

 

McGlue non conosce il suo vero nome, non lo ricorda più. Maltratta e insulta il prossimo con la stessa ferocia che usa contro sé stesso. Sostiene che dentro la crepa che gli apre la testa in due ci vivano i serpenti. McGlue è anche un perfetto personaggio di Ottessa Moshfegh: sudicio, ferino e puro, così puro da ripugnare il mondo. La sua storia – o meglio, quella porzione di essa che ci è consentito osservare tra le fessure – inizia nel 1851, anno di uscita di Moby Dick. Il corpo del protagonista giace riverso sul pavimento ammuffito della stiva di una nave, gli viene lanciato il cibo come ai cani ed è disprezzato da tutti. Non solo per il cattivo odore che emana ma anche per il delitto che ha commesso, del quale sembra ricordarsi chiunque tranne McGlue e noi lettori, che lo seguiamo nel fluire dei suoi pensieri confusi, ubriachi, volgari, eppure traboccanti di disperata nostalgia.
La novella d’esordio di Ottessa Moshfegh, pubblicata dieci anni fa e fatta uscire tradotta da Gioia Guerzoni per Feltrinelli, è cruda e sporca come lo è il suo protagonista. La prosa disturbante dell’autrice statunitense, già riconoscibilissima per quello stile che avrebbe reso celebri i suoi successivi romanzi, trasforma dunque la storia stessa in un personaggio, in un buio luogo mentale, in un pensiero sconcio che marcisce al chiuso mentre fuori domina il mare sconfinato. L’omaggio al capolavoro di Melville è abbastanza evidente (perfino il titolo ne evoca una certa inconscia assonanza), solo che qua il mostro da combattere si trova nel più vasto e inconoscibile degli oceani: quello che ci portiamo dentro. L’illustrazione di copertina, opera del tatuatore Pietro Sedda, offre una resa magistrale di questo concetto: un volto umano che si fa contenitore di tempesta. Dentro di essa un Kraken che emerge dalla superficie e infine due velieri che lottano per non farsi inghiottire dai flutti. È l’allegoria del tormento di un uomo, del processo di elaborazione di un gesto inconfessabile, ma è anche il ritratto di un’America che per gli ultimi non ha nessuna pietà.

 

Prima di Lapvona, prima ancora de Il mio anno di riposo e oblio – di cui, pare, uscirà la versione cinematografica diretta da Yorgos Lanthimos – McGlue rappresenta un già maturo affresco “moshfeghiano” della parte più violenta della società, un’opera di denuncia lucida, priva di ammiccamenti o feticizzazioni. La balena bianca, qua, ha il volto del trauma, e il senso di solitudine provato dal personaggio principale è il medesimo. McGlue questo mare lo affronta come può, sopravvivendo a stento grazie alle strategie spesso disfunzionali che l’esperienza gli ha insegnato e all’affetto per un amico scomparso. Man mano che McGlue torna sobrio si rischiarano i ricordi ed è lì che si possono notare i punti luce della sua anima. L’opera di Moshfegh si comporta allo stesso modo della vita: si mostra più bella all’occhio che la guarda senza giudizio. Ricordandoci che, spesso, la violenza nasce come reazione al dolore. E in questo merita attenzione ed empatia.

 


In un certo periodo della mia vita sapevo che un dio ascoltava i miei pensieri e stavo attento a cosa mi usciva dalla bocca e c’era un tempo in cui la vergogna di quello della mia mente mi faceva sbattere la testa contro il muro e poi ero cresciuto abbastanza da entrare al Lady Lane e riempirmela di alcol. Dev’essere lì che mi portano, al Lady Lane. Dopo così tanto tempo in mare. Dio li benedica, buca, altra buca in strada. Lasciamo che il passato riposi in pace, dai, Johnson.
Scusa, scusa. Lascia che ti compri una bottiglia. Pensa a quanta strada abbiamo fatto.


 

 

In copertina: Gustave Dorè

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