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Una piena solitudine

 fotonormand

Riformulando la riflessione da Proust, si ritiene spesso che scavare nell’anima umana sia possibile considerando i grandi fenomeni sociali, quando invece è solo calandosi nel profondo di un’individualità, e quindi nell’anima di quella individualità, che si potrebbero comprendere quei fenomeni.[1]
“Società”, vale a dire sentirsi dentro la storia, farsi tempo, esserne parte comune, portarne memoria.
Eppure da sempre, in effetti, vogliamo (vorremmo) vincerlo il tempo, qui dove siamo caduti: «Invece di compiere ogni sforzo per ritrovarsi, per incontrare se stesso, la sua essenza intemporale, egli (l’uomo, NdR, corsivo mio) ha rivolto le sue facoltà verso l’esterno, verso la storia».[2]
La misurazione del tempo, sappiamo, è un prodotto dell’uomo. Il tempo è la sua prigione. Tra i suoi “due confini di polvere”, tra il suo essere e ritornare polvere, potremmo addirittura spingerci a dire che l’uomo sia tempo, sia la sua stessa prigione. Ma non il suo sguardo, che come l’amore supera, eccede ogni misura. Uno sguardo cos’è, se non un cammino solitario, un atto d’amore, di un amore antenato e fatto proprio, ma che resta in fondo primordiale, originario?[3]
Se in grado davvero di ampliare e approfondire ogni possibile prospettiva, lo sguardo è sempre atemporale: è, forse, il motivo per il quale attribuiamo tanto valore agli occhi così come ne attribuiamo alla potenza della visione, nella vita come nell’arte.
E tanto più da lontano proviene lo sguardo, e più lontano punta, più la prospettiva è allargata.
A pensarci, a questo serve la lettura, a riempire la solitudine. La solitudine del lettore, ecco, si potrebbe definire una piena solitudine. Un Io, ma non-Io, con la lettura: un Io popolato.

Balla da solo, l’uomo, o comunque ha come unica compagna di danza la morte.[4] Ma mai si tratta di un’unica morte, della propria, perché in una abitano tutte le morti, e sciolta nelle ore sono tante piccole morti. La solitudine, oltreché essenza inestinguibile dell’esistenza, è una stretta necessaria, un imbuto perché ci si trovi come dire spalancati a tutto, a tutti.
Occorre allora, infine, servirsi sempre della poesia.
Ritornano da due fonti differenti mirabili versi.

Questi, di Wisława Szymborska: [5]

(…)

Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.

La morte
è sempre in ritardo sempre di quell’attimo.

(…)

E questi, di Mario Benedetti:[6]

(…)

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.

Che cos’è la solitudine.

La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.

L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.

Cristiano Poletti

 

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[1] M. Proust, La parte dei Guermantes.

[2] E. M. Cioran, La caduta del tempo.

[3] Ed ecco lo sguardo di Antonio Porta in questi versi da Poemetto con la madre, una sintesi meravigliosa:  «Ma c’è un tempo che non conosciamo / che non misuriamo mentre agisce / dentro e fuori di noi: la nascita / lo svela e la morte non lo cancella».

[4] G. Penzo, Kierkegaard. La verità eterna che nasce nel tempo. E, più in generale, tutte le riflessioni sul Singolo di Kierkegaard.

[5] W. Szymborska, Sulla morte senza esagerare, da Gente sul ponte.

[6] M. Benedetti, da Umana gloria.

 

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