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Credere al desiderio – Una parentesi su Bugonia di Yorgos Lanthimos

Di Gabriele Doria


I am one of those melodramatic fools / neurotic to the bone, no doubt about it

Green Day, Basket Case


(Non so dove scrivo. Nell’aria, credo.
Deposito in questa parentesi gli ultimi minuti di questa alba di fine ottobre.

Vorrei partire dal desiderio. Credo (fingo di credere) si parta sempre dal desiderare. Non so se si possa essere più/meno precisi, a costo di una vaghezza iperbolica. Desiderare cosa?

C’è un episodio di Alfred Hitchcock presents che spiega molto bene ciò di cui non sto ancora parlando: ad una specie di fiera di paese, un imbonitore invita la folla a guardare dentro un’ampolla di vetro piena d’acqua. Coloro che si avvicinano si ritraggono immediatamente, terrorizzati. Perché?
Perché ciascuno vede, riflesso nell’acqua, ciò che desidera di più.
Si tratta di una inquietante configurazione della televisione – in quegli anni vista giustamente come oggetto magico da certa fantascienza – ma anche, ovviamente, del cinema. L’acquario del cinema: quindi il suo specchio oscuro.
Io lo vedo attraverso un’altra ampolla, ed è quella del PC. Un caso.
Così come ora, a distanza di una decina d’anni, mi rivedo guardare (guardarmi), e l’immagine evidentemente è inventata da una memoria anch’essa liquida: fa acqua da tutte le parti.
Un po’ troppo solennemente: siamo le maschere della nostra propria visione. Occhi spalancati bloccati (Eyes wide shut, naturalmente) chiusi sulla nostra specifica menzogna: che è quella di guardare il cinema come finto altrove, ritaglio del reale, non riconoscendoci come immagini, noi per primi. Siamo noi, (nel)l’altrove.

Da adolescente ho amato molto Alfred Hitchcock Presents, così come Ai confini della realtà – serie televisive degli anni Sessanta. Ho un’età per cui quell’idea di fantascienza, forse quella stessa idea di visione, si fa carico di una certa qual caricatura di un’epoca che è non la mia, ma nemmeno quella dei miei genitori (e sono già scaduto nel mero dato biografico, sì, ma sono casi, casi della vita, casi di cinema – il cinema: un caso). Vorrei puntualizzare, appunto, per pietà: non può esserci consumo, della propria retina o della propria disattenzione adolescente, senza erotismo, questo non posso negarmelo; farsi attraversare da centinaia di ore di bianco e nero televisivo senza ormai il senso di “quel” televisivo, riversato in formato .mp3 su un portatile dei primi anni Dieci: c’è evidentemente dell’erotismo delle superfici, delle illusioni reciproche (io che mi illudo, sull’immagine, che a sua volta si illude), e ciò va ben oltre l’escapismo, l’intrattenimento, il rassicurante isolamento dello schermo. Si è sempre in ritardo, a volte di diversi decenni. Non dirò: quanto erano avanti per i loro tempi perché, per fortuna, non lo erano1. 

 

Un altro caso: non so se Calvino guardasse la serie di Hitchcock, ma in una delle sue città invisibili sembra citare l’episodio di cui ho scritto sopra. A Fedora, in un grande palazzo di metallo, sono custodite infinite sfere di vetro, dentro le quali i visitatori possono vedere i modelli della Fedora che desiderano, nelle sue mille possibilità inespresse o irraggiunte.
L’immagine è soglia eminentemente diabolica, che gioca col nostro desiderare, con ciò che noi vogliamo vedere. Ancora un desiderio erotico, realizzato: avere visto, a quindici anni in una notte Fuori Orario, Alps di Yorgos Lanthimos. Non è neanche questione di (mal) educazioni sentimentali. Vedere, toccare, credere (obbedire, combattere, sputare): viscido fulgore di bestia. Quindici anni e nessuna colpa addosso, si tratta di come intessere la propria adolescenziale mitologia fuori da tutte le mitologie, nel proprio piccolissimo corpo-mondo. Storture efficacissime: quello di Lanthimos è un cinema che si muove attaccandosi ai corpi come un virus, un alien, un ultra-corpo. Quel Blob che è la cosa più orribile che avessimo mai visto, desiderato di vedere (perlomeno a quindici anni): coltissimo, follemente ambizioso, senza tabù o degradazioni che siano troppo degradanti da mostrare. Peccati originali di dolcissima ferocia, tra i quindici e i diciassette: con Salò di Pasolini e Bunuel (Il fascino indiscreto della borghesia, soprattutto, e Belle de Jour); i giochi maledetti di Haneke, Turin Horse, Bela Tarr e Nietzsche; Le Diable, probablement, bello come tutti i film di Bresson, più bello di tutti i film di Bresson; Sul globo d’argento, tutta quella passione della crocifissione al proprio fascino, eccetera eccetera…

(dove ero?
Posso realmente parlare di un film senza parlare di cos’ero io quando ne sono stato attraversato?
Ciò che dico è semplicemente, banalmente, la restanza di ciò che è stato attraversato da quel pulviscolo di immagini, e cioè, melodrammaticamente, ciò che (mi) rimane di me. E io ci sono ancora, riquadrato dallo schermo luminoso che mi (ci) guarda?

Faccio finta di cambiare discorso, ora che l’ho ingolfato troppo: dicevo, un cinema che si attacca ai corpi come un virus. E gli attori di Lanthimos – la cosa mi ha sempre colpito – hanno una loro speciale particolare cadenza ritmica, come fossero sotto ipnosi, o malati. È uno dei pochi autori che non riconosci tanto dal singolo frame, inquadratura o palette cromatica (conseguenze di una cinefilia setacciata, dissezionata attraverso i social), ma dal selezionatissimo modo in cui caracollano per il set i suoi trasognati interpreti.
Cenni scolastici: Lanthimos nasce già maturo (si descrive come tale, si vorrebbe tale). Con Kinetta (2005) il suo cinema si mostra e si nasconde già nel tortuoso mettere alla prova il proprio codice. Teoria e prova empirica. I corpi cadono in una coreografia artificiosa e balzana, sciatta e crudele, quasi muta. Il gesto non può che essere il gesticolare di se stesso. In Dogtooth (2009) è la parola registrata a essere ridicolizzata. Il potere crea linguaggio, e inevitabilmente contiene il germe della propria distruzione.
Distruzione riattraversata continuamente: ciò che viene degradato dal potere (del regista) è la vita, e allora il cinema ne esce come mummificato nella propria marionetta. In Alps (2011) è proprio la morte a essere presa in esame.
Ciò che noi vediamo al cinema è ciò che resta di un incidente.

 

 

(La prima scena di Kinetta, del tutto slegata dal prosieguo: una macchina rivoltata su se stessa, un tizio in giacca e cravatta che la guarda bruciare; la prima battuta di tutto il cinema di Lanthimos, involontariamente bellissima: “Che cosa hai nell’occhio?”)
Non c’è bisogno di divenire cruenti – o meglio, non più di quanto sia già necessario, per incastrare la vita nell’attimo ripetibile del frame (Who Framed Roger Rabbit?,1988). Cinema, dunque, come movimento e negazione totale del movimento. Questo incidente, si potrà obiettare, è stato però dettagliatamente, rigorosamente, esosamente cercato. Il grande regista Jean Renoir lasciava la porta dei set aperta, per lasciare spazio all’imprevisto. Piuttosto retorico.Un altro grande, Fritz Lang, odiava la possibilità che le cose uscissero dal suo controllo. Avrebbe voluto controllare gli attori soprattutto una volta fuori dalla parte, si direbbe, e le persone incontrate, quello che mangiavano, con chi passavano la notte, la qualità del loro sonno.

Il più grande, Stanley Kubrick, in un aneddoto divenuto proverbiale, sul set di Shining fece ripetere per un’intera giornata  – c’è chi dice quaranta, chi settanta volte – una brevissima sequenza, per avere un certo lampo negli occhi del protagonista. Stava cercando di ritrovare (ma la troupe non lo sapeva ancora) uno sguardo che Jack Nicholson aveva fatto, non preparato e non ripetibile, la sera prima, a cena con lui e un’assistente. Ancora desiderio di vedere (non sappiamo se lo abbia poi ri-visto, quello sguardo, e se sia incluso, ri-vedibile, nel film – le versioni discordano).
Quindi, esperienza cinematografica che si configura, sia da una parte che dall’altra (autore e fruitore, diremo ridicolmente), come attesa di un miracolo. Il miracolo, ovvio, non può che essere uno, sconfiggere il caso, e quindi: ritagliare la vita, il suo flusso, difendersi dalla sua dynamis. Il caso dell’evento, da riportare ripetibile nell’attimo registrabile, quindi già riposante, isolante, da vedere quando e come vuoi (con chi).
Chi accetterebbe di stare fermo due ore a guardare ciò che emerge su uno schermo, se non credesse di stare evadendo? Cioè che quelle immagini non abbiano niente a che fare con lui? Eppure noi impregniamo il caso cinema, e così il caso Lanthimos, della nostra casualità, e non potrebbe essere altrimenti: così io che avendo visto – per caso – Bugonia sono riandato pateticamente alla mia adolescenza, riscuotendo i luoghi della mente in cui sono più o meno impresse, più o meno sepolte, quelle amate serie sopracitate.

Plot twist (con cui salvo la disonestà di questo articolo smembrato, diseguale, scritto in stato di ipnosi): Bugonia è un immenso omaggio (e una quasi-offesa) ad Alfred Hitchcock presents e Ai confini della realtà. Non può essere una mia suggestione un colpo di scena finale che ricalca trame trite e ritrite di sessant’anni fa.

 


Ma eravamo rimasti a
Dogtooth e ai perversi polimorfi di quindici anni. Facciamo i conti per disfarli, allora, aggiorniamo: usciti dalla pleasure dome 2, a dieci anni di distanza, non posso certo dire che Lanthimos sia uno dei miei registi preferiti. Troppo poco disprezzo per quella polvere di immagini da cui è costituito il cinema3, troppa macchinosità esile sotto quella falsa fama di rovesciatore di tabù, di nichilista baldanzoso. Il cinema di Lanthimos vuole dissacrare tutto e finisce col risacralizzare l’immagine di se stesso. Partendo da una posizione di supposta superiorità, compie tutto il giro.

Teddy (Jesse Plemons), il protagonista di Bugonia, vuole anche lui disperatamente credere di vedere. Impone a una realtà disertata, desertificata, una clamorosa maschera di irreale (non a caso, a coronare la sua triste parabola edipica, viene citato – con tanto di bianco e nero – il film più edipico e più connesso a questo mascheramento: Otto e mezzo). Desidera credere a un complotto globale, a una morte significativa, a una guarigione miracolosa, a una possibilità di redenzione. Ed è pronto a sprofondare. Si sente colui che vede meglio degli altri (che ha scoperto cosa c’è dietro lo schermo), ed è quello che verrà più crudelmente preso in giro, l’ultimo dei creduloni. Sprofonda, e non poteva essere altrimenti. Lo specchio che non vediamo ci fa rimanere sospesi allo stadio del desiderio. L’ostacolo è nella retina, e non viene via. L’attimo disvelante è quello in cui scopriamo che tutto rimane nascosto.
Eppure, in una prevedibile/imprevedibile contorsione della trama, scopriamo che Teddy ci aveva visto giusto. Se come colpo di scena può essere più o meno previsto, se lo schema del ribaltamento conta come detto una tradizione invidiabile, tale da potere essere considerato trito, la scoperta della verità sullo specchio che non vediamo è comunque un grande e potente schiaffo dato da Lanthimos allo spettatore (esagero plasticamente – di nuovo: diciamo vorrebbe essere schiaffo, si presenta come tale). Finito di mettere alla prova tutti i limiti dell’immagine filmica, che già conosce, ora il laborioso regista greco vuole, se possibile divertendosi, porre sotto la sua lente lo spettatore, la sua bramosia finta, il suo essere dentro stando al di fuori, visione di visione.

È divertente, perché lo spettatore secondo questa mia ricostruzione sarebbe allora un serial killer e le varie foto di cadaveri dissezionati una specie di sezione della propria personale biblioteca visiva (il cinema: un caso di omicidio). D’altronde abbiamo già detto che il cinema sarebbe una specie di piccolo cadavere, natura morta o realtà abortita. La sopravvissuta, Emma Stone, la CEO Michelle, sarebbe invece il film Bugonia stesso, ostacolo che si frappone al desiderare e che porta a una nostra più o meno prevista e voluta “illuminazione”. Il complotto che avevamo forse intravisto era contro di noi, abbiamo finito per capitolare. Era il complotto delle immagini. Nel cinema all’interno della sua testa malata, Teddy ha desiderato vedere: e ha visto. La sua testa vola via in un ralenti che è sia Kubrickiano che da horror slasher di serie B.

Ma nel momento in cui lui ha visto, saltando in aria, ciò che aveva particolarissimamente già congegnato nel suo cervello, noi ci stacchiamo da ciò che stavamo vedendo. C’è un taglio. Perché se lui ha avuto ragione, non abbiamo più ragione noi (di “credere” al film, di dibattere sulla riuscita di questa trama così placidamente appassionante…) E lui (che è morto ma è rimasto morto nel frame, framed) ha visto prima, e tutto.
Desiderio di credere all’immagine, finalmente deluso: l’immagine ha cospirato contro di noi. E dato che siamo noi, le immagini, la morale terribile del film, terribile nella sua leggerezza e nel sorriso beffardo con cui viene servita, è semplicemente che abbiamo cospirato contro noi stessi.

) Ecco. Ho finito.


Note

1 Enrico Ghezzi ha scritto: Siamo noi che manchiamo al tempo

2 Under the pleasure dome è un seminale (inteso come seme maschile) film di Kenneth Anger

3 Citazione di Debord, dal suo ultimo vertiginoso film In girum imus nocte et consumimur igni


 

In copertina: Dalla soffitta digitale, AI art by Giulia Bocchio

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