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Non sarò mai come voi, ma vi somiglio – Appunti veneziani su Guillermo Del Toro e il suo Frankenstein

Di Edoardo Marchetti

 


29 agosto 2025 – Lido di Venezia – 82ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia  Pioggia, sangue e bellezza


Ho qualche ora libera dalle proiezioni, finalmente. Le prime, dopo la giornata piena di ieri e la frenetica  mattinata di oggi. Tre orette che potrei dedicare alla scrittura di una recensione, oppure sfruttare per  rilassarmi un po’, in attesa della proiezione di Ghost Elephants di Werner Herzog, alle 19:00. “Credo che  farò così”, penso. Sento gli occhi già affaticati dalla lettura dei sottotitoli; non ci vedo molto bene con gli  occhiali che indosso. Devo cambiarli, di nuovo, dopo neanche un anno. Vado a riposarmi al parco Quattro  Fontane, un piccolo giardinetto con scivoli, altalene e altre giostrine arancioni per bambini, qualche panchina  in mezzo al prato o nascosta tra i pochi alberelli – dove mi siedo a pranzare ogni giorno -, un tavolino da ping  pong di cemento senza rete, isolato dal resto e con la superficie totalmente scrostata, un campetto da  pallacanestro abbastanza curato e, al posto del pattinodromo, un ingombrante bloccone rosso emerso dal  terreno: la sala Corinto. Intanto, mentre cammino, il cielo si fa più nuvoloso e il vento comincia  inaspettatamente ad alzarsi. Poi, le prime gocce mi cadono sulla testa. Quindi, per ripararmi dall’imminente  acquazzone, che ha rovinato l’unica possibilità di riposo della giornata, e considerando che non mi sembra  sinceramente il caso di precipitarmi tra l’imminente bolgia del Palazzo del Casinò, prenoto il film che  inizierà tra quindici minuti, alle 17:00, proprio nella sala Corinto: Sangre Del Toro, un documentario di Yves  Montmayeur su Guillermo Del Toro. Entro e mi siedo sulla poltroncina grigia assegnatami dal sistema di  prenotazione. Montmayeur presenta brevemente il film, promette una sorpresa per chi  rimarrà fino alla fine dei titoli di coda, e poi le luci si spengono. Riesco a leggere i sottotitoli senza troppe  sfocature, per ora.  

 

 

Sangre Del Toro è un documentario sulla psiche di Del Toro (soprattutto sulla sua fascinazione per i mostri,  ovviamente), iniziato nel 2019 con una mostra d’arte a Guadalajara, in Messico, dove fu esposta un’enorme  quantità di oggetti collezionati dal cineasta durante la sua vita fino a quel momento. Tra i tanti aspetti, quello  che mi ha interessato di più, forse complice anche l’attesa per Frankenstein, è il ragionamento sull’intimo  rapporto dei messicani con la morte, e sull’influenza che questo specifico rapporto ha avuto su tutta la  poetica del cineasta. Poco prima della fine della proiezione, da un lato della sala, noto entrare goffamente una  silhouette immediatamente riconoscibile. Quando le luci si riaccendono, dopo circa un’ora e venti dall’inizio,  è proprio Guillermo Del Toro ad alzarsi da una poltroncina, poco più avanti della mia, e a salutare il pubblico  caloroso con un sorriso pacioso e genuinamente bonario. Ringrazia, parla un po’ di quello che abbiamo  appena visto, scatta qualche selfie e firma alcuni autografi, come se fosse un epilogo naturalmente necessario  e aggraziato alla conclusione del film. Terminato questo breve viaggio, uscendo dalla Corinto, ne inizio  subito uno nuovo verso il film di Herzog e, mentre cammino a passo svelto per raggiungere la sala Astra, a  venti minuti a piedi da dove mi trovo (per fortuna non piove), ripenso al documentario e a una frase in  particolare pronunciata da Del Toro a conclusione del suo discorso, che, sono convinto, mi sarà utile per  leggere al meglio la sua – pienamente personale – versione di Frankenstein, in programma qui a Venezia tra  due giorni: L’essenza dell’essere messicani, secondo me, è accettare che il mondo è fatto allo stesso tempo  di orrore e di bellezza.  


31 agosto 2025 – Lido di Venezia – 82ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia  Acqua e mostri


Fa caldo, oggi. Almeno fuori dalla sala, mentre sono in mezzo all’infinita coda.
I millesettecentosessantotto  posti della Palabiennale si riempiono piano piano, con calma, ma il film comincia alle 11:00 esatte, prima  che tutte le poltroncine siano occupate, mentre il pubblico continua ad entrare a frotte. Faceva caldo, fuori.  Qui dentro, invece, fa freddo. Molto freddo, come sempre. Anche nel film fa evidentemente freddo – forse  per questo mi sono immerso immediatamente nel mondo di
Frankenstein. Il prologo si apre al Polo Nord, su  una nave bloccata nel ghiaccio, con Victor Frankenstein gravemente ferito e il mostro deciso a farlo soffrire.  Poi comincia la prima parte, il racconto di Victor e, a metà film, la seconda, quello della Creatura, mentre il  comandante della nave, insieme a noi che guardiamo, ascolta attentamente ogni parola e ogni punto di vista.  Riesco a seguire la storia senza perdermi neanche una sequenza (cosa non scontata dato il sonno arretrato).  Una volta uscito dalla sala, gli occhi non mi bruciano esageratamente.  

 

Il mostro (Jacob Elordi) e Victor Frankenstein (Oscar Isaac) in una scena del film

 

È sera. Ripenso al film dopo averne parlato tutto il giorno con alcuni amici. Mentre viaggio sul vaporetto,  leggo e mi soffermo su una piccola parte del commento di Del Toro: “Il capolavoro di Mary Shelley è pieno  di domande che mi bruciano dentro l’anima: domande esistenziali, tenere, selvagge, senza scampo, come  solo una mente giovane può porsi e a cui solo gli adulti e le istituzioni credono di poter rispondere. Per me,  però, solo i mostri detengono la risposta a tutti i misteri. Sono loro il mistero.” Unendo questo frammento a  ciò che aveva detto Del Toro dopo il documentario, mi viene da pensare che la Creatura di Frankenstein sia  una sorta di approdo della sua autorialità. Il cineasta, in questo suo progetto trentennale – sognato  dall’infanzia -, sembra finalmente incontrare il mostro per eccellenza, o forse la sua forma più compiuta: un  essere che nasce dalla morte (anzi, dalle morti!), e che proprio per questo non può che portare dentro di sé il  mistero della creazione, una creazione ambigua, scissa tra scienza e religione, tra il gesto di un dio e quello  di uno studioso (o di un artista). Nel film, i riferimenti cristologici sono evidenti, e si intrecciano  continuamente alla dimensione scientifica. Il più significativo avviene durante la sequenza in cui la Creatura  ottiene la vita, quando il suo corpo, un corpo morto assemblato con pezzi rubati da vari cadaveri, viene  fissato su una croce dentro a un laboratorio e resuscitato durante un forte temporale. E da qui, come spiega  Vito Zagarrio nel saggio New Mex-Hollywood – La dorsale transnazionale di Cuarón, Iñárritu, Del Toro  (America Oggi II, a cura di Giulia Carluccio e Matteo Pollone), sembra ritornare un chiaro discorso  sull’acqua come spazio liminale, di passaggio e trasformazione, che il cineasta porta avanti da tempo – un  elemento, riscontrabile soprattutto in Cuarón e Del Toro, che si intreccia inoltre con l’approccio al cinema  dei registi messicani che negli ultimi decenni hanno lavorato anche a Hollywood: i cineasti della cosiddetta  New-New-Wave messicana, capaci di esportare e allo stesso tempo rielaborare la propria identità nazionale  all’interno dei codici di genere e dei meccanismi produttivi dell’industria hollywoodiana. In questi film,  l’acqua diventa un liquido amniotico, carico di implicazioni psicanalitiche e, perché no, talvolta religiose; un  luogo in cui le immagini si rigenerano e le identità si ridefiniscono. Pensiamo, per quanto riguarda Cuarón, al  mare nella sequenza finale di Roma, o al finale di Y tu mamá también, o alla sequenza madre di Disclaimer;  e, per Del Toro, al pescecane di Pinocchio o all’anfibio de La forma dell’acqua. In Frankenstein non è  diverso. L’acqua congelata blocca la nave e dà inizio al racconto; la resurrezione della Creatura è possibile  grazie al temporale; la sua ri-rinascita, una sorta di battesimo alla vita, avviene successivamente alla fuga  obbligata e alla caduta nel fossato pieno d’acqua che circonda il castello. E infine, quello stesso ghiaccio che  bloccava la nave, e che aveva permesso al racconto di costruirsi, può essere spezzato e tornare liquido.

 


È in questa tensione continua tra morte-inesistenza e ri-nascita magica e misteriosa accompagnata  dall’acqua che il mostro prende forma e consapevolezza. Nei film di Guillermo Del Toro i mostri non  rappresentano mai la vera minaccia (al contrario dell’umanità), ma sono, invece, esseri tangibili che  costringono lo spettatore a riconsiderare le proprie categorie morali ed emotive; ci spaventano e ci  commuovono allo stesso tempo, perché in loro possiamo riconoscere parti di noi stessi, le nostre fragilità, i  nostri sentimenti, le nostre intenzioni e paure, fino ai nostri desideri. Di fatto, il Mostro di Frankenstein in  questa trasposizione è pienamente umanizzato, esteticamente e mentalmente; è un ragazzino che diventa  adulto, un percorso identico al nostro, come l’anfibio ne
La forma dell’acqua, come Pinocchio.
Pinocchio  (oltre ad essere un personaggio similissimo al Mostro di Frankenstein) è un passaggio fondamentale anche  per ragionare sull’approccio di Del Toro all’adattamento di un romanzo. Il cineasta non si limita a trasporre  fedelmente le storie, ma le reinventa deviandone le tematiche verso le proprie ossessioni e domande. In  Pinocchio, tra i vari cambiamenti, viene inserita una parentesi storica sul fascismo e viene modificato il  finale. In Frankenstein viene sottolineato maggiormente il rapporto disfunzionale padre-figlio, viene resa più  complessa la relazione tra Elizabeth e la Creatura e viene enfatizzato il percorso di umanizzazione del  mostro, con un finale che si apre alla grazia e alla redenzione, abbandonando l’horror per fare spazio al  favolistico e al romanticismo (come fece anche con La forma dell’acqua. Anche qui, la fantascienza e la  linea orrorifica vengono posti in secondo piano rispetto a Il mostro della laguna nera, film da cui proviene  l’anfibio, per rafforzare l’elemento fantasy e la componente romantica – quest’ultima rubata a La bella e la  bestia).  

Il vaporetto, barcollante a causa delle onde, attracca a San Marco. Scendo e mi dirigo verso casa insieme ai  miei amici, attraversando ponti su ponti per quindici minuti, continuando a parlare dei film visti durante la  giornata. Osservo gli affascinanti riflessi delle luci sull’acqua increspata, e qualche volta scatto una  fotografia con la mia vecchia macchinetta compatta. Arrivati a casa, mi viene in mente che Del Toro vinse il  Leone d’oro al miglior film alla 74ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con La Forma  dell’acqua. Penso che Venezia sia davvero il luogo ideale per mostrare i suoi film, come se la città ne  estendesse naturalmente la poetica.

Domani dobbiamo svegliarci presto; devo dormire e ricordarmi di  comprare un collirio.

 


In copertina: La locandina ufficiale del film che, da domani 7 novembre, sarà disponibile su Netflix.

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