Di Giulia Bocchio
Iniziò a pensare che Dio fosse una diceria, una superstizione popolare
Storia del giudizio
Quando affonda nelle viscere della terra, la scrittura si fa antica, si veste di radice e sugge qualcosa di sotterrato, beve i resti di sepolture che non abbiamo pianto ma che continuiamo a inseguire. Fra gli strati più profondi del suolo c’è l’archivio di un DNA collettivo che ha abitato una certa porzione di tempo e di spazio che si è trasformata in un immaginario frastagliato, che è poi un sentiero da seguire. È a questo che tende Gerardo Spirito fra le storie (tutte intersecate fra loro) di Pastorale mediterranea – Fabulario delle erbe amare (effequ).
Tornare al passato senza datarlo, fare di un tratturo la linea temporale: d’altra parte ce l’ha nel nome, in quel verbo latino che è trahere, “trascinare, tirare”, e nel suo participio passato tractus, “ciò che è stato trascinato, tirato lungo la terra”; il tratturo racconta, sin dal suono, la fatica del movimento, il passaggio reiterato che incide la terra e la trasforma in via.
Un tractus che si riveste delle forme tractorius e tracturus, le sibilanti voci del latino medievale che indicano ciò che è destinato a essere percorso, attraversato, “tirato” nel tempo. Ma la lingua dei campi non designa soltanto una strada, indica un sistema viario antico e solenne, lungo il quale, per secoli, si è compiuto il rito della transumanza, il lento migrare delle greggi dai monti ai piani, seguendo le stagioni e la fame dell’erba. E qui le narrazioni si espandono, si contaminano, si biforcano. Ci riportano all’arcano, al bucolico, all’ancestrale.

Questa Pastorale mediterranea è una questione tutta corale, c’è un sacco di gente che emerge e scompare e poi riemerge ancora inghiottita da una geografia più o meno precisa.
Prima che tutto cominci, senza mai terminare davvero, ci viene fornita una mappa: una porzione di terra che contiene il paese di S., bagnata da due mari, il Tirreno e l’Adriatico e il tratturo di cui sopra, chiamato Magno, lì a tagliare in due lo spazio, i villaggi, le esistenze, uno spartiacque metaforico sui prodigi e le miserie che la nascita accaparra a ognuno nel momento in cui vagisce (ma qui dipende se crediamo al caso, oppure al destino). Un Sud arcano quello abitato dai tanti personaggi che animano queste storie, terra sannita che resiste alla cartografia, alla cronaca locale, persino alla memoria stessa.

Nessuno, né i calderai della prima storia, né Giona, né ‘onna Tebe, né i membri delle diverse stirpi di un tempo mai stato presente, può davvero nulla contro l’apparente indifferenza di solstizi ed equinozi: è la ciclicità che tutto, prima o poi, porta a compimento. Ecco perché qui germoglia soprattutto un certo linguaggio, un preciso e accuratissimo studio del registro linguistico, perché per tornare all’ancestrale, all’apotropaico e alla volontà di strappare dall’oblio ciò che più non viene nominato è necessario ritornare al lessico della sopravvivenza, quello che muoveva le lingue dei nostri avi.
Come si sopravvive, in fondo, un giorno in più alla fame, al freddo, al pregiudizio, alla superstizione?
Con la conoscenza tramandata di bocca in bocca
Gerardo Spirito non è l’antropologo dei suoi stessi personaggi, è il testimone, colui che comprende che ogni parola dimenticata trascina con sé un intero modo di abitare e interpretare il mondo perché quando muore il nome di un’erba, non scompare solo un termine, ma la capacità di riconoscerla, di raccoglierla, di trasmetterne l’uso e lo stesso vale per determinati cibi, o per il nome degli attrezzi, se lo dimentichiamo si estinguerà anche la tecnica che li giustificava.
Sulla scia di Basile, la rivendicazione della dignità di una cultura orale, dialettale, contadina come forma piena di pensiero e di letteratura, in questo fabulario delle erbe amare, contamina l’italiano letterario, lo incrina, lo costringe a farsi poroso, lo costringe a sapori e odori che non conosciamo più. Come l’universo alimentare che incontriamo fra queste pagine e che certamente rievoca tutta l’estetica di Masserie di Cristo di Andrea Gentile. Impossibile andare al supermercato, trovare nel reparto gastronomia i nervetti e non pensare a I vivi e i morti.
Lo stesso vale per Pastorale, all’accuratezza del nominare certe abitudini, la normalità meravigliosa di incappare in un acquaiolo ambulante che vende acqua e anice o in un mercato di piazza la cui merce è incrostata tanto di miracolo quanto di pettegolezzo.
Ma tra un decotto, un medicamento, una febbre, una morte e un intreccio di vite umili si annida anche una certa oscurità latente, all’interno della quale emergono e scompaiono odori strani (nuovi per noi, perché appartenenti a un altro tempo), movenze e un certo modo di abitare la vita che tenta di sopravvivere a sé stessa, alla simbologia che accompagna il bucolico perché la natura, la campagna non consolano: sono enigmi, sono ombre che trasformano il paesaggio in un organismo vivo, a tratti ostile, sempre consapevole.
Seguiamo la transumanza di quelle ombre. Da qualche parte arriveremo.
Gerardo Spirito (Napoli, 1992) è autore de Il libro nero della fame (Moscabianca, 2022) e Madreselva (Moscabianca, 2025). Ha fondato la rivista «Calvario».
In copertina: René Magritte, La follia di Almayer, 1951

