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Decentrare l’umano: ecologia e linguaggio in On land – Un dialogo con Antonio Francesco Perozzi

A cura di Annachiara Atzei

 

 

Per questo l’esercizio di smarcarsi da un’idea centrale, dall’ argomento che si pone, diventa muscolare. Obbedire alla visuale e insieme rivoltarla, notare ciò che è frastagliato, e che assedia piano i pilastri, la diffusione dei rami. Già qualcosa in questa risposta. Si riesce pienamente nell’intento – di vuotare lo spettacolo – dislocandosi.

Antonio Francesco Perozzi, On land

 

Il confine predefinito tra mondo naturale e mondo artificiale si rompe. La distinzione tra vivo e inerte muta. Il modo di frequentare i luoghi viene rimesso in discussione. Non si tratta di descrivere lo stato delle cose, né di testimoniare l’evoluzione del paesaggio circostante. E neanche di fare un uso nostalgico della memoria per raccontare fatti accaduti in un passato più o meno remoto. Antonio Francesco Perozzi, in On land (Prufrock Spa), compie un’operazione più audace: fa saldare, agire insieme e dialogare le funzioni del linguaggio con gli elementi propri del luogo, ripensando la relazione tra questo e la poesia (o la prosa, se si vuole), che non deve basarsi sulla pura estetica ma alimentarsi proprio di quella co-esistenza. E, nonostante il libro richiami i dintorni della Valle dell’Aniene laziale (in cui l’autore vive), l’intento appare quello di mettere in luce le contraddizioni di tutti i luoghi e di quanto contengono: ciò che si sviluppa spontaneamente, ciò che è realizzato per mano dall’uomo, e l’uomo stesso. Un viaggio tra il reale e l’allucinato, in cui ipotizzare una nuova collocazione dei fattori coinvolti nel discorso per dare il via, d’ora in avanti, a un discorso nuovo.

 

 

On land è la descrizione di un paesaggio: dighe, impianti in disuso, autostrade, ma anche radure, boschi, campi brulli e coltivati e, soprattutto, tutti quegli spazi liminali in cui ciò che è stato edificato artificialmente si ibrida con l’elemento naturale spontaneo. Che rapporto c’è tra queste diverse parti? E dove si situa l’uomo?

L’idea originaria di on land ha a che fare con la rottura del confine preconcetto tra mondo naturale e mondo artificiale. È una suggestione che mi ha contagiato dopo aver letto – oltre ai testi fondamentali sul terzo paesaggio – i libri di Bruno Latour. Soprattutto in Non siamo mai stati moderni, Latour discute questo confine come una “Grande Divisione” che è storicamente (e ideologicamente, aggiungo io) collocabile. Dunque non spontanea ed eterna come ci viene da ritenere.
Da un punto di vista filosofico, si tratta di far saltare i confini tra queste parti e descrivere il risultato di questa rottura. Non è una rottura che ha a che fare solo col perimetro fisico degli oggetti, ovviamente, ma anche con il loro portato simbolico e la loro “fungibilità”. Avviene insomma che una mola può essere perforata materialmente dai rovi, ma anche che questa perforazione costringa a ridiscutere i presupposti riguardanti l’uso degli oggetti, la frequentazione dei luoghi e le distinzioni che facciamo tra vivo e inerte.
Questa distinzione non è solo concettuale, ma anche in certo senso esperienziale: i luoghi richiamati nel libro, e accompagnati dalle coordinate geografiche, sono esistenti e, soprattutto, legati a un preciso perimetro geografico. Questo perimetro coincide grossomodo con l’area della Valle dell’Aniene laziale e i suoi dintorni, cioè con l’area in cui vivo e che mi ha dato modo di vedere a occhio nudo la maggior parte di ciò che ho antologizzato.
Per alcuni di questi luoghi, è stato necessario anche l’occhio satellitare, ed è proprio da questa compresenza di prospettive che si può arrivare a rispondere a proposito dell’“uomo”. Se da un lato non puntavo ad un racconto testimoniale, la radice biografica è parte dell’operazione nel senso del tentativo di cartografare il proprio luogo, che in quanto tale richiede di essere allo stesso tempo dentro e fuori il paesaggio e mostrare così la propria contraddizione.
Inoltre, anche se non compaiono personaggi umani attivi (se non alcune «figure» evanescenti, più simili a dettagli del paesaggio), il libro in realtà è pieno di residui umani, come lo sono tutte le cascine, le dighe, le rovine che campeggiano sui prati o nelle foreste del libro, e che sono umane in quanto manufatte, ma anche in quanto stimolatrici di quelle crisi degli usi e dei simboli che suggerivo prima. Insomma, c’è poco umano raccontato, e poco umano rappresentato; ma c’è molto, credo, umano allegorizzato, proprio nelle sue presenze/assenze, come sguardo dell’operazione e come artificio degli elementi con cui il paesaggio si assembla e disassembla. 

Cosa coglie il visitatore, lo spettatore – o il lettore, anche – del mondo com’era e del mondo com’è? Che ruolo ha la memoria nel racconto dei luoghi?

Come dicevo, in on land non ho particolare interesse a raccontare nel senso di testimoniare una storia, di lasciare traccia di una verità. I luoghi considerati sono esistenti, questo sì, ma non sono utilizzati come scenario di drammi né come realtà da salvaguardare. Al contrario, lo sfondo che viene in primo piano e la mutazione inarrestabile dei luoghi sono due caposaldi concettuali del libro. Anche quando si accenna a stagioni storiche precedenti a quella attuale (perché magari c’è un residuo della società rurale, oppure un acquedotto romano) non lo si fa mai con intento archeologico; sempre, invece, con l’intento di far agire alcuni elementi ultra-specifici (perché appunto esistenti), in una conformazione insieme dello sguardo e del paesaggio che il testo costruisce sul momento.
Quindi, premesso che l’autore non è mai del tutto padrone del suo testo, né mentre lo scrive né dopo averlo lasciato andare, mi sono impegnato al massimo per far sì che lo spettatore/lettore non esperisse mai qualcosa di documentaristico, e che frequentasse, semmai, proprio un gioco intricato in cui le unità e le divisioni interne al luogo co-agissero con le unità e le divisioni interne al discorso che lo descrive. Ne consegue che anche l’uso della memoria non è un uso storicistico, e men che meno nostalgico, ma al limite un uso cognitivo, non so come dire – lo sforzo di tenere insieme i pezzi, di trovare il modo di tenerli insieme, mentre si costruisce una mappa logica e mentre, costruendola, i pezzi si trasformano da oggetti a discorso. Non è un caso infatti se, nonostante il riferimento all’esistente, e non di rado a luoghi coincidenti con paesi o cittadine, ho del tutto omesso i toponimi: pur prelevando da un’area geografica che conosco bene, e proprio a partire da un mio interesse anche teorico e pratico per le aree interne, ho voluto evitare in tutto e per tutto il particolarismo. Il già mappato, il turismo di sé. Mi interessano poco.

Che relazione c’è tra poesia e paesaggio? In che modo la tua scrittura è influenzata, nei temi e nei modi – da ciò che vuole rappresentare? E, viceversa, in che modo lo filtra?

Un altro dei motivi che mi hanno spinto a fare on land è sicuramente il desiderio di provare a riscrivere i presupposti del rapporto tra poesia e paesaggio, molto spesso ancora oggi diretti verso modalità estetizzanti, quando non impressionistiche o ritrattistiche. Queste modalità non mi affascinano particolarmente perché presuppongono che la scrittura sia una pellicola su cui si imprime una certa forza estetica e che, appunto, esista una forza estetica naturale oggettiva, universale, voluttuosa. Il mio sforzo di riscrittura (che passa non ultimo dalla scelta della prosa, e certo anche dalla scelta di luoghi spesso anestetici e corrotti) è andato quindi in direzione di una critica a questi schemi psico-letterari e ha trovato la sua cifra proprio nel peculiare, alternativo, modo di far interagire scrittura e paesaggio.
Quando, prima, mi riferivo alla descrizione della rottura del confine tra mondo naturale e mondo artificiale, intendevo dire che i testi di on land riprendono, o imitano, alcune funzioni della descrizione (ad esempio il taglio analitico, un certo uso dell’aggettivazione o l’idea di una scrittura che sta a valle rispetto a un oggetto, appunto una de-scrizione), ma non hanno, come dicevo, un obiettivo testimoniale, storiografico o “neutralmente” geografico.
Una delle tracce più evidenti di questa infedeltà è la sintassi dei testi, che adotta gli strumenti della scrittura argomentativa (sillogismi, connettori logici, deduzioni, esempi…) e integra nel flusso del ragionamento la specificità dei luoghi convocati, che acquistano un proprio ruolo all’interno di esso, lo deviano e costringono. Ne consegue che i luoghi sono elementi del discorso tanto quanto il discorso è un elemento del paesaggio, e che un velo di sottile allucinazione, sfasatura logica, permea il libro. Ma ne consegue anche che, se i testi costruiscono la propria logica a partire dal modo con cui i luoghi specifici si agganciano al linguaggio, nessun testo può fare davvero da sineddoche all’intero libro. Ogni testo fabbrica le proprie unità di misura. Dunque è impossibile parlare di descrizione per ogni parte di on land.

 

 

C’è un vuoto o, meglio, un residuo, in cui attraverso la parola poetica può farsi spazio una rinascita?

Tendo a non attribuire alla letteratura un ruolo salvifico. Anzi, mi sento lontano proprio dai concetti di rinascita, salvezza o catarsi per interpretare e opporsi al proprio tempo: nel campo visivo della mia miopia, ciò che mi sembra di osservare è che la condizione presente sia determinata in larga parte da questioni materiali, dal fatto di vivere in un contesto che dà per naturali alcune gerarchie non naturali e oppressive: quella tra le classi, per esempio, o tra i generi, o tra le razze.
Se la “morte” che bisogna presupporre prima della “rinascita” è questa, la soluzione non la vedo nella letteratura ma in una trasformazione economico-sociale (molto complessa e faticosa) Nei territori dello spirito, o anche solo dell’ontologia, non so avventurarmi. Quello che posso dire è che non credo che la poesia, o la letteratura, o la scrittura, siano un farmaco. Mi ci avvicino, semmai, come dispositivi molteplici e inafferrabili che sanno far entrare nelle proprie maglie tanto il livello materiale quanto quello esistenziale, oltre a mille altri, e un sistema di segni problematizzanti ulteriore rispetto alla vita che vivremmo da “muti”.
Riconosco i margini con cui la letteratura può anche incidere sulla società e sull’esistenza, ma fatico ad attribuirle una direzione univoca, quindi anche una direzione che vada univocamente verso la protezione invece che verso l’annichilimento. Non so se è possibile, insomma, dare un senso unitario e complessivo alla letteratura. O, se è possibile, io non so qual è.

On land è anche un libro ecologista? O un libro politico? Si può ancora immaginare che i processi ecologici si rimettano in moto, che ci sia una “mutua assistenza delle specie”, come tu scrivi?

Credo di poter rispondere a questa domanda in continuità con quella precedente, evidenziando cioè che il problema è materiale: occorre che la questione ambientale venga affrontata dalla politica e che si riconosca il legame tra la crisi in corso e il modello estrattivista, colonialista, in cui il mondo inumano è stato costretto. Alla letteratura, al limite, spetta il compito di gestire un immaginario e un linguaggio, quindi di mostrarne le possibilità e la potenza, ma anche i limiti, i meccanismi ideologici, le visioni parziali. Se on land è politico, allora, lo è nel senso che propone una gestione di immaginario e di linguaggio legata al tema della “natura” diversa e oppositiva rispetto a quella dominante (in poesia e fuori). Il suo taglio politico è più obliquo, si fa sul come si costruisce un linguaggio e non su cosa dice. E se è ecologista lo è nel senso di avere tra i suoi strumenti la decentralizzazione umana, l’apertura al non umano. Non posso, invece, dire che è politico nel senso che propone un programma operativo, né che è ecologista nel senso che denuncia, perché, sebbene non esista azione politica senza programmi e denunce, queste istanze non riguardano prioritariamente la letteratura. Anche l’espressione “mutua assistenza delle specie”, se vogliamo, presuppone di proiettare la volontà umana nelle altre specie e appartiene – benché io di certo capisca, e apprezzi, la buona intenzione che sottende – ancora a un linguaggio antropocentrico. L’umano non può scrivere senza smettere di essere umano, siamo d’accordo, ma se on land è politico lo è nel senso di usare la scrittura per cambiare il posto a tutti gli elementi coinvolti.


 

Tre testi da On land (Prufrock Spa, 2024)

 

41.967444, 12.797194

Accedendo, al margine della città, allo scheletro della cartiera, si può camminare in uno spazio diverso. Azioni che si danno per scontate, come procedere in piano, afferrare oggetti, scivolare tra due stanze contigue, sono qui compromesse. D’altra parte, eventi quali recidersi il palmo con un fondo di bottiglia o seguire un corridoio mozzarsi e dispiegare, nel quadrato, l’area boschiva, favoriscono relazioni nuove tra l’individuo e il suo rifugio. Logica che, se accolta, fa generare in ogni corridoio finestre vegetali, reinquadramenti del percorso, modalità avverse. Ecco perché sforzarsi di ricordare e il tentativo ripetuto di raggiungere un secondo livello sono la stessa esperienza. L’abbandono ha prodotto questo risultato. Lo stabile un tempo era una fabbrica e ora si viene abbandonati, entrando.

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41.952694, 12.818194

Per una strada che dai treni entra nel bosco, nella ghiaia, si arriva alla centrale idroelettrica. In quel punto il fiume si allarga e il primo segnale di abitazioni si nota oltre la scarpata. L’edificio è giallo e intatto, e sulla parte alta i vetri circolari lasciano intuire un interno, lo spazio per qualcosa, a cui non si può assistere. Questo divieto, più l’isolamento del luogo, danno all’edificio un’aura. Di conseguenza l’aspettativa è che un lavorio ne riempia le sale, e che matasse di energia si condensino al centro della stanza prendendo la forma di una nuvola, un globo, una scarica centripeta. Che il passaggio da acqua a corrente, da materia a velocità, brilli nel vuoto dell’impianto, trovi giuste fibre nell’aria, poi tramite i cavi raggiunga le residenze. Imbattendosi nella centrale idroelettrica, si possono proseguire ragionamenti sull’innocenza di ciò che si trasforma, sulla natura della quiete.

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42.015638, 12.908539

L’oggetto che viene dimenticato – questo si apprende visitando la vecchia mola – si uniforma gradualmente al contesto. Dal profilo attuale non traspare nulla, o quasi, dell’uso precedente. A questa liposuzione contribuisce del resto l’allestimento circostante, specie il cavalcavia che incombe molti metri al di sopra del livello. Parallelamente alla disgregazione, quindi, della civiltà rurale, dell’aver bisogno, da parte delle comunità, di una macina a ridosso del fiume, ha agito il principio fisico di decomposizione. Ora arbusti e rovi riempiono le sale dell’immobile, mettono in crisi, sfruttando le fenditure e i comparti murari crollati, l’individuazione di un interno. Con il rarefarsi degli eventi nel sito, l’oggetto si spropria.


 

Antonio Francesco Perozzi vive in provincia di Roma e insegna nella scuola secondaria. Ha pubblicato Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022), Bottom text (in Poesia contemporanea. Sedicesimo quaderno italiano, Marcos Y Marcos, 2023) e Soluzioni per ambienti (Zacinto, 2024). Suoi contributi critici e creativi sono apparsi in riviste e antologie. Cura il blog La morte per acqua e il podcast Spara Jurij.

 


In copertina: Graces of Gerosa by Bianca Bondi

Una replica a “Decentrare l’umano: ecologia e linguaggio in On land – Un dialogo con Antonio Francesco Perozzi”

  1. […] Ricezione critica– Prose poetiche, antidoto agli slogan del mondo moderno di Lorenzo Allegrini su Huffington Post– Presenza e scomparsa dell’umano in due libri paralleli: “Quaternarium” di Gianluca Furnari e “On land” di Antonio Francesco Perozzi di Andrea Accardi su A proposito di un cane in livrea– La logica accolta. Una nota di lettura su on land di Antonio Francesco Perozzi di Daniele Bellomi su Poesia del nostro tempo– La poesia che si fa metodo (di ricerca). Su on land di Antonio Francesco Perozzi di Francesco Ciuffoli su Vallecchi Poesia– Su “on land” di Antonio Francesco Perozzi: i luoghi del Terzo paesaggio di Antonio Semproni su La Fionda– Scrittura di ricerca, prosa in prosa, letteralità di Gian Luca Picconi su La scuola delle cose 19– Recensione di Marco Palladini su L’age d’or– Recensione di Mario De Santis per la rubrica Per certi versi su TuttoLibri (La Stampa)– «L’ago del mondo in me» — Ospite: Antonio Francesco Perozzi a cura di Silvia Patrizio su Atelier– Decentrare l’umano: ecologia e linguaggio in On land – Un dialogo con Antonio Francesco Perozzi di Annachiara Atzei su Poetarum Silva […]

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