Di Pompeo Angelucci
Il giorno dell’ape è un romanzo densissimo, che per essere capito andrebbe letto attraverso la lente pratica del “guardare la mente che guarda”. La vicenda, narrata con l’alternanza dei punti di vista dei quattro protagonisti, arriva a toccare di continuo momenti di concretezza in questo voler estrarre verità-dal-realismo: Dickie è il padre di famiglia, a capo della concessionaria Volkswagen in rovinoso declino e che lentamente scivola in una passività quasi delirante, a fianco del suo amico (complottista) Victor. Imelda, sua moglie, nutre un odio viscerale per la vita, e nel raccontare la sua storia Murray ci porta dentro un passato profondamente doloroso: dall’infanzia violenta a causa di un padre alcolizzato fino alla morte in giovanissima età del suo amato Frank, fratello di Dickie. Cass è nella fase spaventosa del trasferimento a Dublino per studiare all’università, ed è continuamente vittima di un’attrazione malsana verso la sua migliore amica e coinquilina Elaine. E infine Pj, un bambino sveglio e a dir poco geniale che racconta di un’infanzia traviata dal cambiamento climatico e dall’iperconsumismo, che soffrendo la dimensione familiare sogna e progetta la fuga da casa. Quattro paia di occhi, quattro menti, quattro storie che Murray cuce, sembra, con l’intenzione di lasciare la cucitura a vista, e in questa partizione formale emerge una certa volontà di tornare alla fonte del ragionamento interiore dei quattro protagonisti, alla base pensante comune della famiglia Barnes. Murray adotta nell’assemblaggio quattro registri differenti, caricando ogni pagina di un peso specifico melmoso come petrolio, nel cambiare stile narrativo – come quando esploriamo il trascorso di Imelda, e qualsiasi segno di interpunzione è assente per indicare (oltre l’influenza diretta di Joyce e il flusso di coscienza) un’aderenza piena al suo passato oscuro e sfocato. I personaggi (non solo principali, ma anche la comunità familiare, sociale, scolastica), volendo pensare all’intreccio, somigliano alle parabole esistenziali descritte da Milan Kundera; per il modo in cui nei suoi romanzi fantasmi e persone si confondono (passato e presente), e nel modo che hanno i personaggi di muoversi in uno spazio allo stesso tempo tridimensionale e onirico; carico di una profondità di campo unica. I fantasmi, nell’opera di Murray, sono l’allegoria che meglio raccoglie il senso del tempo trascorso:
«Non riesco a trovare alcuna causa fisica per i sintomi che mi descrivi. Dickie. Non vedo niente qui. è per questo che propongo di dare un’occhiatina anche dietro le quinte, per così dire. Potrebbe essere utile. Il passato resta con noi, in moltissimi modi inaspettati. Se non ci abbiamo fatto pace, si ripresenterà di continuo.
Sta parlando di fantasmi?
Parlavo del corpo. Si ripresenterà con dolori, dolori fisici, dolori mentali. Perché hai detto fantasmi? Niente, volevo… mi scusi, ho capito male io.
Ci pensi di frequente? A quel che è successo?
Dickie? Perché hai detto fantasmi?»

In un’intervista per Service95, parlando delle sue maggiori ispirazioni per questo romanzo, Murray cita Faulkner e in particolare Requiem per una monaca: «Il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato». Parlando di Mentre morivo poi racconta della trama, e di come «diversi membri della famiglia si alternano nel raccontare la storia, contraddicendosi a vicenda. L’ho letto per la prima volta quando avevo quindici anni e mi ha lasciato senza parole». La trama familiare de Il giorno dell’ape quindi si presta benissimo al racconto della dissoluzione, perché proprio lo stare a contatto dei personaggi è descritto con una minuzia esaltante. Il minuscolo paesino di provincia diventa una sorta di scatola oggetto che porta con sé una universalizzazione, una conformazione che rende facilmente esportabile il contesto fuori dall’Irlanda, dalla periferia dublinese. Potrei dire che la sua forza è anche questa: saper parlare al di fuori, mantenendo sullo sfondo il mondo imprevedibile e alluvionato che oggi viviamo.
Il giorno dell’ape (Einaudi Stile Libero, traduzione di Tommaso Pincio), finalista al Booker Prize 2023, libro dell’anno secondo il New York Times e il New Yorker, e anche vincitore del Premio Strega Europeo 2025, come l’ultima grande opera irlandese Intermezzo – Sally Rooney nell’olimpo delle interpreti dei tempi correnti – si iscrive pienamente in quei canoni postmoderni, alla Don DeLillo (Rumore Bianco). Se lo stile, il come, per Murray è importante tanto quanto il cosa, allora è chiaro che nel tratteggio degli eventi la scrittura nella sua manifestazione fisica (la pagina) parla una lingua propria. Come per il già citato caso di Imelda, o nel caso di Dickie, quando il ritmo si fa incalzante, delirante e febbricitante; con dei passaggi frenetici che sembrano echeggiare Philip Roth e il suo sguardo morboso sul sesso represso; nella relazione clandestina che Dickie intrattiene col giovane Ryszard. Nella chiusura del romanzo questo passaggio al postmoderno diventa sempre più che palese, finché vediamo i personaggi affievolire progressivamente dentro righe che si alternano, chiusi dentro battute di passaggio. Una modalità espressiva teatrale che ricorda alcuni segmenti de Il grande tiratore di Kurt Vonnegut.

Per comprendere “filosoficamente” la struttura morale de Il giorno dell’ape mi sono chiesto se esistesse un modo di ragionare e meta-ragionare, per poter meglio cogliere le sottili linee e file del linguaggio, il suo modo di operare, e se nella letteratura contemporanea ci fosse spazio per questi temi. Ho trovato delle ottime suggestioni in una raccolta di saggi curata dal filosofo, sociologo e psicoterapeuta austriaco Paul Watlzlawick La realtà inventata. Contributi al costruttivismo (Feltrinelli, 2018) che raccoglie contributi di studiosi dei più disparati ambiti – in particolare nel saggio di Rolf Breuer L’autoreferenzialità nella letteratura. Uno studio sulla trilogia di Samuel Beckett, che affronta il tema della finzione nella letteratura e dell’oggettività esplorando i romanzi dell’autore irlandese. A offrirmi nuovi punti di vista quindi è stato proprio l’approccio a questa scuola di pensiero che matura un’analisi nuova quando, a partire dal 1960, Paul Watzlawick lavora al Mental Research Institute di Palo Alto, in California. Questa spiega come scientificamente la realtà personale non potrà mai essere definita oggettiva in quanto ogni realtà è frutto di ogni distinta esperienza. Altri interessanti spunti sono portati avanti anche negli esperimenti pragmaticamente narrativi di Watzlawick, nel quale adotta lo storytelling per veicolare la filosofia costruttivista, contenuti in Istruzioni per rendersi infelici (Feltrinelli, 1988) o Di bene in peggio. Istruzioni per un successo catastrofico (Feltrinelli, 1987).
In breve: il costruttivismo di Watzlawick spiega che la realtà è, nella totalità dei casi, frutto dello sguardo messo in prospettiva di qualcuno. E senza dubbio nella letteratura, e maggiormente nel romanzo, la libertà concessa permette di esplorare a fondo questa idea di passaggio da un mondo all’altro, dall’uno all’altro. In questo senso Il giorno dell’ape è emblematico proprio perché in grado di entrare a fondo dei personaggi che Murray crea e osserva; come restando sempre sospeso in una dimensione parallela e mai del tutto sconnessa; e soprattutto senza dimenticare il contesto nel quale i personaggi si muovono, fatto di cambiamento climatico, disinformazione e recessione economica dilagante. Murray non abbandona mai, né mette in secondo piano la realtà che circonda i suoi protagonisti, e così facendo svela attraverso i loro gesti l’adesione a una concezione del mondo espressamente postcoloniale, nel quale l’interconnessione e la globalizzazione hanno lasciato una traccia impossibile da cancellare:
«Non si trattava soltanto del garage; non poteva chiamarsi fuori, c’era dentro fino al collo. Stare su Instagram, mangiare un gelato, accendere una luce: l’intera sua vita, capì, i suoi gesti più casuali, si lasciavano dietro una scia tossica, come se ci fosse una Cass ombra che saccheggiava lo stesso mondo in cui lei viveva».
Se leggendo Il giorno dell’ape mi sono trovato a condividere una crisi intrinsecamente iscritta negli anni correnti, credo che la risposta sia contenuta anche nelle parole del filosofo sudcoreano Byung chul Han, che spiegando la sua idea di “sciame” parla di quel flusso che si agita online; ben diverso dalla folla poiché «lo sciame digitale è composto da individui isolati» (Nello sciame. Visioni del digitale; nottetempo). Vedi l’amico Victor, dalla personalità rispondente alla più accurata descrizione di un utente di 4chan, probabile sostenitore e promotore dell’alt-right.
Ma esiste una effettiva correlazione tra il disfacimento del modo in cui la realtà viene raccontata e la realtà stessa?
Da un decennio a questa parte sembra che la percezione della realtà oggettiva sia scomparsa dal nostro orizzonte. A cambiare, mi viene da pensare ultimamente, sembra essere proprio il nostro modo di relazionarci al “fatto” in quanto susseguirsi di eventi (vedi il costruttivismo), mentre trasportati dal concetto logico di causa-effetto diamo per scontato la complessità che ci si para dinanzi. Per comprendere meglio questo cambiamento basti pensare a come è mutata la sfera del giornalismo, che dell’affondo dei fatti ha sempre fatto la sua peculiarità e che oggi fatica a trovare una rilevanza nel modo di vedere il mondo per moltissima gente – soprattutto online. L’esempio più illuminante in questo senso lo offre Jill Abramson col suo Mercanti di verità (Sellerio), un saggio del 2021 sul declino del giornalismo contemporaneo; che intreccia la scia di quattro realtà giornalistiche centrali nella prima metà degli anni Dieci: New York Times, Washington Post, Vice e BuzzFeed.
Se la nostra realtà (o anche il nostro provare a comprenderla) è diventata così criptica, la letteratura segue i nostri abbagli. Il costruttivismo di Watzlawick mi è sembrato un modo di aggrapparmi a qualcosa, una speranza, che mi dicesse che allora dentro la realtà che ci siamo costruiti dobbiamo saper navigare bene. Che nelle cose bisogna indagare, e a fondo. E che siamo interconnessi, come specie, in questo turbine postcoloniale, inquinato e grigio chiamato vita. Leggendo Il giorno dell’ape ho realmente sentito la plausibilità di un mondo possibile: il nostro. Lo stesso nel quale la realtà va sempre costantemente rivista, ripensata, riscritta.
In copertina: Ornamento d’oro a forma di ape decorato con filigrana e granuli, civiltà minoica, 1700-1600 a.C.

