Di Gabriele Doria
È assurdo per me aver pubblicato dei libri.
Michael Bible
“Tutta la vita è un tentativo fallito di recuperare il nostro passato. Cerchiamo di dare un senso alle cose solo dopo che sono accadute. Stiamo tutti scrivendo le nostre biografie dalla carrozza del treno, guardando all’indietro”. Si chiude così l’intervista di Paolo Massari a Michael Bible, ospitata sulle pagine online di Limina: con un riflesso smosso. Cosa si vede da un treno in corsa, se non la stessa (im)possibilità di vedere? E, per qualche attimo, magari tra il declinare nell’ombra del paesaggio in sospensione, in dispersione, emerge il riflesso di un volto. Insospettabilmente: il nostro.
Pasolini sosteneva che mai oggetto di narcisismo fu più fecondo di un cadavere. Questo perché l’ossessione per il senso può trovare vero compimento soltanto a immobilità avvenuta. È la fine, banalmente, a dare il senso. Pasolini fu un eccellente cattivo profeta della propria fine, osservandosi già cadavere dall’interno di due occhi vivi. Ricordo anche una frase di Truffaut, altro regista (e non credo sia casuale il rapporto tra il morire e la morte in movimento che è il cinema). Truffaut spiega che durante la nostra vita diventiamo tante persone differenti. Qualsiasi tentativo di autobiografia sarà invariabilmente il tentativo fallimentare dell’ultimo arrivato di rimettere insieme dei pezzi che non stanno più insieme.
Sarà per questo che Michael Bible in Goodbye Hotel inizia con una pagina di colore cosmico?
Immaginate il passato. Il rombo di tuono con cui comincia ogni cosa e tutto il dolore e la poesia che ne seguono. Lo spazio si espande, acquista velocità fino a produrre un eccesso di tempo e di spazio. Tanto di quel tempo e tanto di quello spazio che tutte le cose possibili cominciano a esistere contemporaneamente. Ogni scelta, ogni possibile possibilità. Tutto il caos e tutto l’ordine. Adesso guardate la linea del tempo frammentarsi in una moltitudine di diramazioni. Una rete di probabilità in espansione incessante. Figuratevi un singolo universo e il nostro fragile mondo in mezzo alle stelle e all’oscurità. Le cellule più piccole diventano organi complessi, occhi, reni e cuori. Poi le bestie e gli uccelli, la flora e la fauna si moltiplicano. Sorgono le montagne e si formano i fiumi. Enormi palme accarezzano il cielo. Nessun piede umano ha ancora sfiorato la terra. Il cibo è abbondante, l’acqua pulita, i predatori cacciano le prede. Terremoti, vulcani, uragani, tsunami. Certe creature vivono a lungo, altre muoiono dopo un solo respiro.
Canto e controcanto: Friedrich Nietzsche iniziava Su verità e menzogna in senso extramorale (Adelphi, 2016) con queste righe:
In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante della “storia del mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, l’astro si raggelò e gli animali intelligenti dovettero morire.
Continuava poi:
Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, vano e arbitrario sia l’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva; quando per lui tutto sarà nuovamente finito, nulla sarà avvenuto. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui. Se noi riuscissimo a intenderci con la zanzara, apprenderemmo che anch’essa nuota attraverso l’aria con questo pathos e si sente il centro – che vola – di questo mondo.

Il centro del mondo, come in un antico mito sciamanico della creazione, nel romanzo di Bible è retto da una tartaruga gigante, Lazarus. Accanto a lei sfilano i destini, si sfilacciano le architetture millepiani delle generazioni, di uomini piccoli, abietti e perduti. Ad accompagnare la tartaruga c’è un viandante sciancato, muto, vestito di seersucker. I due girano di città in città predicendo il futuro. Siamo scesi dalle mansarde di Dio appena in tempo per assistere al più classico dei crocevia del destino: una morte violenta. Una Jeep lanciata a tutta velocità nei dintorni della cittadina immaginaria di Harmony, nel North Carolina, sta per colpire in pieno Lazarus. È guidata da due adolescenti ubriachi, Eleanor e François, innamorati l’uno dell’altra. Accelerando senza vedersi, stanno scorrendo le loro autobiografie smosse. L’uomo con il completo di seersucker salva la tartaruga difendendola col proprio corpo, morendo nell’impatto con la Jeep. È la morte che serviva a dare inizio alla storia, lo strappo nel tempo immemore di Lazarus. La testa del Battista al centro del piatto d’argento di Salomé è già una mappa del cosmo. Questo incidente destinale è lo squarcio al di fuori del tempo e che pure permette al tempo di avere inizio.
Facendo ricerca scopro che il tessuto seersucker era indossato come tratto distintivo di classe, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti, dalle raffinate élite schiaviste nella prima metà del XIX secolo. Verrà poi ribaltato nelle sue valenze assumendo coloriture più decadenti ed eccentriche, finendo per essere usato dalla medesima classe degli schiavi come “vestito buono”.
Chat GPT mi fa notare, ma forse è una sua allucinazione, che seersucker è parola formata da “seer” veggente, e “sucker” sfigato. Salviamo l’abbaglio. Il nome del tessuto invece deriva dal persiano “shir o shakar” (شیر و شکر), che significa latte e zucchero, alludendo alla texture mista: liscia e ruvida.
Lazarus invece è un nome storicamente associato alle tre figure raccontate nei vangeli di Marco, Luca e Giovanni, e variamente reinterpretate dalla letteratura successiva (Eliot nel Canto d’amore di J. Alfred Prufrock “Io sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti, torno per dirvi tutto, vi dirò tutto”). Deriva dall’ebraico La’zar, forma abbreviata di Ele’azar, “Iddio ha soccorso”.
La storia di Lazarus è legata ai vari seersucker men che l’hanno accompagnata nel corso del tempo, la sua biografia una serie di sogni trascolorati in una amnesia felice. Gli uomini che si sono succeduti nell’accudirla sono dimostrazioni flagranti di un continuo rifiutare la storia della sopraffazione. A metà tra il venditore ambulante di sogni e il sacerdote anarchico, questo compagno di strada trova lo scopo fondamentale della sua esistenza nel riconoscere il suo successore: si tratta di una rapidissima intuizione di sguardi. Il custode di Lazarus, da lei a sua volta custodito, deve essere un uomo in fuga dalla propria biografia, fuorilegge in un punto morto, incontrato per caso e per destino, sempre nell’unico momento possibile, quello giusto. Il seersucker man in servizio sarà allora abilitato a rompere il proprio voto del silenzio e saprà invariabilmente trovare le parole giuste per convincere. Ogni volta peccatore, ogni volta redento. Nel breve riepilogo dei vari passaggi di consegna, vedremo la tartaruga affezionarsi a volti sempre diversi e in fondo sempre uguali, come di un unico uomo colto nelle gabbie mobili della propria rammemorazione, come di un monaco nella propria missionaria reincarnazione.
Abbiamo detto che per dare un senso serve un cadavere: la storia di Eleanor che si dispiega dal momento dell’incidente in poi è significativamente quella di un cadavere mancante. I due giovani si mettono d’accordo per una fuga senza lasciare traccia. Le loro vite sconvolte devieranno altrove. Eleanor sarà creduta morta dai suoi genitori, dalla sorella Abby (forse la vera sorella perduta del romanzo) e soprattutto dalla sua piccola tartaruga, Little Lazarus, lontana discendente della più grande, rubata durante una vacanza a New York. (A margine sarebbe da accennare un discorso sul doppio: non solo Little Lazarus, non solo i vari seersucker, ma persino Eleanor e François sembrano avere dei doppi durante il romanzo, in altre parabole smarginate: eppure il loro disperato tentativo di allontanarsi da loro stessi finisce per produrre loro stessi come doppi, tremanti e fumosi, delle loro controparti più giovani, nella lancinante assenza di un originale…)
“Vorrei scrivere la mia storia, o almeno la mia versione dei fatti, ma non riesco a smettere di guardare la neve”. così inizia Francois a scrivere le sue memorie dal Goodbye Hotel. E continua: “Spero non vi dispiacerà se divago, se riporto male qualche dettaglio e qualcun altro me lo invento. Mi rimane solo un pezzetto di verità.”
Il riscrivere un’esistenza tramata da innumerevoli deviazioni è di nuovo accompagnato dal guardare attraverso un vetro. Ancora un movimento di frenata, di caduta. La linea del tempo, ormai lo sappiamo, si è frantumata in miriadi di teorie, e la sua ricostruzione, anche solo potenziale, non può prescindere dall’oblio riempito di neve. Così tra false partenze e dense risposte mai scritte, congedi lacrimevoli in cui non c’è niente di vero, tormenti impotenti, odiabili resti, ricomponiamo vite inevitabilmente “distrutte dalla scrittura creativa”. Ad ogni sopravvissuto è affidato un pezzetto di verità come un dono elargito dal dio dei sogni, e quel dio è ancora Lazarus. François stravede alla finestra un mondo di impossibilità ancora possibili, tra le quali reincontrare Eleanor. “Ma il fuoco si è spento”, e fuori si gela. “Eravamo destinati a perderci”, scrive Francois. Ma è poi vero?
Come afferma Paolo Massari nell’intervista già citata: “Non c’è una verità unica e definita nemmeno per fatti che la richiedono più di altri”. E come aggiunge lo stesso Bible: “Devo dichiararmi ignorante sull’assenza o presenza di una verità assoluta nel mondo. Per molti versi mi sono abbandonato completamente all’ambiguità. Non solo nel mio lavoro, ma anche nella mia vita”.
Deviazione di deviazioni. L’illusione di ricostruire una linea del tempo orientata è destinata rumorosamente a fallire. Nel suo scritto sul pittore quattrocentesco Paolo Uccello, rinominato Paul Les Oiseaux, Antonin Artaud riconosce nell’artista la sua stessa pervicace ricerca di una prospettiva assoluta. “Tu Paolo Uccello insegni a non essere altro che una linea e lo stadio elevato di un segreto.” È l’impossibile, estremo tentativo di bruciare tutte le prospettive per distillarne la scaturigine, l’immanifesto che continua a sottrarsi. Artaud, come Uccello, rivede se stesso spingersi fino allo spessore di un pelo, di una ruga da quella presa. È l’utopia ontologica del controllo della totalità: il tentativo di fare accadere insieme la carne del mondo e lo spirito, l’azione che taglia quella carne.
Agire è sempre collocarsi in prospettiva. Collocarsi in prospettiva, fa notare Artaud, è sempre un po’ morire. Ancora: la testa del Battista tagliata di netto ormai è ferma, si lascia considerare nei dettagli. Si possono tracciare tutti i meridiani possibili1. Sarà per questo che tutti i personaggi di questo romanzo, dai maggiori a quelli di secondo piano, danno l’idea di fuggire da se stessi nel momento stesso in cui vengono lambiti dalla scrittura. Ne conosciamo alcune caratteristiche fondamentali: ci vengono riepilogate perlopiù le loro colpe. Registriamo squarci su esistenze che esauriscono il loro respiro nel giro di poche pagine. Tutte forse in qualche modo attirate dalla tartaruga totemica, dal toccare la sua eternità. La sensazione è che nulla vada sprecato, nel grande meccanismo, e “la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei”2.
Il finale del libro è dedicato a Eleanor. Sta bruciando tutte le linee temporali della sua storia, rammemorando tutte le proprie deviazioni. Nel cinema della mente, sta svolgendo ricordi su pellicola fragili come ali di farfalla. In un flusso di coscienza combusto, c’è tutta la disorganicità della memoria che si è tentato di ricostruire nello svolgimento del romanzo, fallendo. Fuori, nel frattempo, tutto va a fuoco davvero, e lei rimane come dimentica di sé, semplicemente chiudendo le finestre (ancora un vetro). Perché il fuoco fuori è nulla rispetto alla vertigine dello squarcio che sta operando su di sé, finalmente avvicinando quella parte oscura che continuava a sfuggire.
C’è un rapporto specifico col fuoco, nella scrittura di Bible, a questo punto non casuale. Claudio Kulesko, nel recensire L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi 2023) scrive: “Il fuoco, qui, è metafora di una verità che arde più del reale — più nitida e più luminosa del reale stesso”. Nel romanzo precedente tutto ruotava attorno al momento ferale (e in un certo senso fetale) in cui Iggy decideva di darsi fuoco dentro la chiesa, costringendo venticinque persone a morire, e sopravvivendo, slancio di goffo incapace kamikaze, nell’incoscienza divina che lo renderà veggente Nabucodonosor poi, nel braccio della condanna a morte. In Goodbye Hotel invece il fuoco colpisce arrivando senza preavviso e senza una ragione spiegabile, contabilizzabile. Un incendio quindi assolutamente necessario, più vero del vero, come la scrittura omiletica di Bible nella sua straordinaria intimissima tangibile urgenza. Eleanor sfuggirà al fuoco mentre attorno a lei tutto crolla.
Il cinerario, l’urna dei ricordi sommersi? Forse troppo.
Si è tentati di vedere il segno di una perfetta parabola della combustione, quindi: lo squarcio che ha dato inizio alla storia della lontananza fra i due amanti, involontari omicidi, ha ricomposto il segno inverso di una possibilità di vita ulteriore. Eleanor si ritrova a respirare un’aria da primo giorno del mondo. Forse, quel senso di eternità toccata dalla tartaruga, di tempo senza tempo, di sogno felice dell’amnesia, è quel tempo del perdono che, sostiene Derrida, può perdonare soltanto l’imperdonabile? Il perdono non avviene davvero quando c’è possibilità di comprendere, o di espiare. Si tratta di “Un’iperbole etica, una follia del cuore” , già in un certo senso avvenuto tra le diverse generazioni di seersucker. Per questo Eleanor reincontra, dopo tanti anni, Lazarus, che al termine di infinite peregrinazioni si ritrova sulla stessa isola.
Al di fuori della legge e della morale, senza condizioni e riconciliazioni possibili, il perdono autentico è folle, impossibile e divino.
Note
1 La vicinanza tra Battista decollato e invenzione della cartografia è approfondita da F.Farinelli, L’invenzione della terra, Sellerio, 2007
2 Purgatorio, canto III, 122-123
In copertina: Melchior Lorck, Tartaruga e vista di città murata, 1555

