Some courage and some wisdom,
blended in measure.
Profondo studioso e conoscitore dell’opera di J.R.R. Tolkien, Wu Ming 4 ne è diventato anche il traduttore: lo scorso anno ha infatti ri-tradotto Lo Hobbit.
Un’impresa – e una responsabilità – che mette sempre di fronte al profondo potere evocativo della lingua.
Ed è intorno al grande tema della Terra di Mezzo che Wu Ming 4 ha aperto la nuova edizione di Attraverso Festival : una buona occasione per parlare di un immaginario ormai senza tempo, sospeso nello spazio ma anche difficilmente separabile dall’estetica che un certo cinema gli ha dato.
Sarà un bene o sarà un male?
Intervista a cura di Giulia Bocchio
Nel cuore più tragico e cupo del Novecento, in un quel preciso momento storico in cui tutto è ombra e l’umanità è colpita da uno dei più tremendi assalti alla libertà e alla dignità del vivere, compare un uomo, uno scrittore che crea un immaginario parallelo, mai pensato e dunque immaginato prima. Gli dà un tempo e uno spazio sospesi, una dimensione alternativa in cui linguaggio, metafore e creature nuove si muovono verso orizzonti di senso e d’azione in grado di cambiare per sempre una certa letteratura. Quello scrittore era John Ronald Reuel Tolkien. Facciamo quindi un passo indietro, com’è nata la sua fascinazione per questo autore?
Direi che la mia fascinazione per Tolkien risale alla mia infanzia. Avevo cinque anni quando mi portarono al cinema a vedere la prima trasposizione cinematografica del Signore degli Anelli, quella di Ralph Bakshi. Era un film incompleto, perché il sequel non fu mai realizzato, e questo mi lasciò frustratissimo. Ero un bambino, e restare con la storia a metà mi colpì molto. Soltanto una decina d’anni dopo, quando ebbi l’età giusta per leggere il romanzo e capirlo bene — perché parliamo di un’opera di oltre mille pagine — ripresi in mano Tolkien come lettore, durante l’adolescenza. Negli anni successivi lo misi un po’ da parte, esplorando altri percorsi di lettura. Ma poi, per una serie di coincidenze, la scrittura è diventata il mio mestiere, e di conseguenza mi sono riavvicinato a Tolkien, non più solo come lettore, ma anche come scrittore. Ho cominciato a riflettere sulla sua poetica, sulla sua idea di letteratura, sulla sua capacità di costruire mondi narrativi. L’ho trovato molto utile, in certi casi, anche ispirante. In altri magari meno, perché ci sono certamente delle differenze culturali ed epocali. Tuttavia, devo dire che mi sono anche un po’ “rinnamorato” di questo autore. Ho ricominciato a leggerlo sistematicamente: non solo le sue opere narrative, ma anche i saggi, gli scritti legati alla sua attività di accademico e insegnante universitario — almeno fin dove potevo arrivare a comprenderli. Da lì è cominciato un percorso che ormai va avanti da più di quindici anni. Oggi mi occupo di Tolkien in modo continuativo: ne scrivo, tengo conferenze, partecipo a dibattiti. Faccio parte dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani, che riunisce studiosi, appassionati e anche qualche accademico, e che organizza convegni, festival, iniziative culturali. In questo percorso ho incontrato molte persone che mi hanno raccontato esperienze simili alla mia: spesso l’incontro con Tolkien avviene durante l’adolescenza o comunque la giovinezza. È curioso pensare che, quando Il Signore degli Anelli uscì, i critici dell’epoca erano molto scettici. Lo consideravano un romanzo troppo lungo, pieno di nomi strani, con un tono un po’ cavalleresco, quasi fuori dal tempo. Eppure, nonostante le sue metafore appartengano a un immaginario fantasy legato al passato, quest’opera continua ad attrarre moltissimo i giovani. C’è una forte spinta da parte loro a entrare in quel mondo, a conoscerlo. Un noto critico letterario degli anni Cinquanta, Edmund Wilson — uno dei grandi nomi della critica statunitense dell’epoca — bollò Il Signore degli Anelli come un’opera adolescenziale, pensata per un pubblico di ragazzini. Non vi trovava la maturità e la profondità della grande letteratura modernista, quella che aveva segnato il primo Novecento, da Fitzgerald a Hemingway, da Virginia Woolf a Joyce. In Tolkien vedeva soltanto una fiaba, con figure archetipiche del mito e della leggenda, ma priva di introspezione psicologica, di sessualità, di complessità interiore. Insomma, secondo lui mancava tutto ciò che caratterizzava la letteratura ‘seria’ di quel tempo. Eppure, c’era l’avventura. E i protagonisti erano figure molto particolari: gli Hobbit.

C’è una caratteristica ricorrente nei lettori di Tolkien, ovvero la giovinezza, o meglio, l’adolescenza. Molti incontrano e scoprono i suoi romanzi proprio in questa fase della vita…
Credo che proprio questa dimensione, questo tipo di viaggio collettivo, sia una delle chiavi del successo del romanzo presso il pubblico giovane. Un altro critico dell’epoca, stavolta britannico, Edwin Muir, diceva che i protagonisti di Tolkien sono come ragazzi mai cresciuti. Non sono adulti nel senso pieno del termine: hanno un’ingenuità, una certa inconsapevolezza di quanto il mondo sia vasto e complesso, eppure si buttano nell’avventura. Sia Lo Hobbit che Il Signore degli Anelli hanno come protagonisti questi personaggi un po’ strani, difficili da incasellare. Frodo Baggins, per esempio, al di là della sua età anagrafica, ha molto in comune con un adolescente: è un personaggio irrisolto, single, che non sa bene qual è il suo posto nel mondo. Vorrebbe partire, ma anche no. Alla fine è costretto a farlo, un po’ suo malgrado, e si ritrova a condividere l’avventura con un piccolo gruppo di amici. C’è quindi un’esperienza corale, un viaggio vissuto da una “banda” di personaggi che si trova coinvolta in eventi molto più grandi di loro.
Veniamo al suo lavoro di traduzione de Lo Hobbit. Quando ci si confronta con testi di questo calibro, e che hanno già una storia individuata di grandi traduzioni alle spalle, quali sono le difficoltà maggiori che si incontrano? Cosa aggiungere, cosa caratterizzare? E, soprattutto, quando si traduce un classico, quanto è difficile abdicare al proprio ego di narratore, non imprimere all’opera originale la propria impronta personale?
Il traduttore dovrebbe, e qui il condizionale è d’obbligo, mettere sempre da parte il proprio ego. Poi, naturalmente, molto dipende dalla personalità: ci sono traduttori che impongono con forza la propria cifra stilistica, altri che cercano invece di sparire dietro al testo. Nel mio caso, ho avuto — se vogliamo — lo svantaggio e insieme il vantaggio di non essere un traduttore di professione. La traduzione non è mai stata la mia prima attività, quindi non potevo che affrontarla con umiltà. In un certo senso, ero costretto: non avevo altra scelta se non quella di mettermi il più possibile al servizio del testo, con i mezzi che avevo — modesti, certo, non quelli del traduttore esperto, ma quelli di chi conosce molto bene l’opera, in questo caso Lo Hobbit.
Avevo anche riflettuto a lungo sullo stile di Tolkien, che è davvero molto particolare. La sua scrittura raggiunge pienamente la maturità ne Il Signore degli Anelli, ma già ne Lo Hobbit si possono cogliere alcuni tratti distintivi: ad esempio, il suo amore per le parole arcaiche. Tolkien dissemina i suoi testi di termini appartenenti a fasi precedenti della lingua inglese, cosa perfettamente coerente con il suo profilo di filologo. Oppure il suo gusto per i giochi linguistici, per le assonanze, per le doppie aggettivazioni. Quando traduci, soprattutto da una lingua così diversa come l’inglese, devi inevitabilmente fare delle scelte. In alcuni casi, puoi tentare di ricreare quegli effetti stilistici nella tua lingua; in altri, sei costretto a sacrificarli per non compromettere la scorrevolezza della prosa. Per esempio, puoi provare a cercare termini italiani che abbiano assonanze simili o evocazioni arcaiche analoghe. A volte funziona, altre volte no. In certi casi, quel corrispettivo in italiano semplicemente non esiste, e sei costretto a rinunciare, con un certo dispiacere, sapendo che qualcosa andrà inevitabilmente perso.
Al tempo stesso, soprattutto se il traduttore è anche uno scrittore, sa bene che la lingua deve essere fluida, viva. Quando ho ritradotto Lo Hobbit, ho cercato di mettere a frutto la mia esperienza di narratore: lavorare su una coerenza stilistica, su un ritmo e una musicalità del testo che potessero parlare ai lettori di oggi, senza però tradire lo stile di Tolkien. Quando possibile, ho cercato proprio questo equilibrio. Un esempio concreto riguarda la parlata dei troll. Nell’originale inglese parlano uno slang molto marcato, un linguaggio che ricorda il dialetto dei bassifondi londinesi. È un inglese grezzo, proletario, che contrasta in modo netto con quello, molto borghese e corretto, di Bilbo Baggins. Ho notato che le traduzioni italiane precedenti non avevano dato molto rilievo a questa differenza. A me, invece, sembrava importante provare a restituirla, perché in Tolkien le variazioni di registro linguistico servono proprio a marcare le differenze tra i personaggi. Così, ho deciso di inventarmi una parlata italiana sgrammaticata, un po’ rozza, da mettere in bocca ai troll. L’obiettivo era rendere, per quanto possibile, lo stesso effetto che l’inglese originale produceva. Questo tipo di intervento fa parte, in fondo, anche del mio mestiere: trovare una soluzione creativa che rispetti lo spirito del testo e, allo stesso tempo, funzioni nella lingua d’arrivo.
Tolkien è considerato il maggior scrittore fantasy del XX secolo, eppure c’è ancora chi guarda a questo genere letterario come a un fenomeno editoriale fortunato, privo di autentico spessore psicologico. Alla luce della lunga fortuna dell’opera, delle sue profonde radici mitologiche, letterarie e culturali, e dell’impatto che continua ad avere sull’immaginario contemporaneo, quali crede siano le ragioni di questa resistenza a riconoscerne il valore letterario? E in che modo la Terra di Mezzo continua, secondo lei, a parlarci oggi?
Quando pensiamo a Tolkien, lo consideriamo spesso il padre della letteratura fantasy contemporanea. È un autore che ha, di fatto, rifondato un genere, dando origine a un filone enorme e influenzando intere generazioni di scrittori. Il numero di autori che hanno cercato di seguirne le orme è davvero impressionante. Quanti di questi emuli siano riusciti a essere davvero all’altezza del maestro, però, è difficile dirlo — probabilmente molto pochi. Dopo Tolkien, c’è stato un proliferare di fantasy dozzinale, o comunque fortemente imitativo. Opere che, da un lato, cercavano di colmare un vuoto: Tolkien non poteva più scrivere — era morto — e quindi l’offerta editoriale si è orientata su qualcosa che potesse “sostituirlo”, almeno in apparenza. Ma trovare opere fantasy che si avvicinino davvero al suo livello è ancora oggi molto difficile.
Anche quegli autori che hanno provato consapevolmente a distanziarsene, a scrivere un fantasy radicalmente diverso, hanno dovuto fare i conti con lui. Penso ad autori contemporanei come Philip Pullman, Joe Abercrombie, Richard Morgan… tutti nomi che propongono un’idea di fantasy molto lontana da quella tolkieniana, eppure con lui devono confrontarsi. Tolkien resta sempre presente, anche come opposizione o come contraltare. È un punto di riferimento ineludibile, nel bene e nel male. Un edificio complesso, difficile da superare.
Secondo me c’è stato anche un grande equivoco all’origine, come dicevamo prima, molti critici degli anni Cinquanta lo sottovalutarono, lo snobbarono, lo liquidarono frettolosamente. E da lì, in un certo senso, si è creata una frattura. Dall’altra parte, è anche vero che il fantasy — come altri generi, penso ad esempio al noir o al poliziesco — ha conosciuto una produzione sterminata, ma spesso di qualità piuttosto bassa. Ci sono senza dubbio grandissimi autori e autrici in questi generi, ma sono accompagnati da una moltitudine di opere meno riuscite. Questo ha contribuito a far considerare la letteratura di genere come letteratura di serie B. Ovviamente, io credo che sia un errore. La distinzione tra “alta” e “bassa” letteratura, o tra “generi nobili” e “generi minori”, non regge più. La letteratura è letteratura, punto. E ogni opera va valutata per quello che è, a prescindere dal genere a cui appartiene.
Nel corso dei decenni l’intera opera di Tolkien si è trasformata in un vero e proprio prodotto cinematografico, incontrando un tipo di serialità che non si è risparmiata niente: dai video games alle serie tv, passando per uno sterminato merchandising.
Il cinema ha fatto bene o ha fatto male a questo autore?
Il cinema, senza dubbio, ha avuto un impatto molto positivo sulla diffusione e sulla conoscenza dell’opera di Tolkien, a tutti i livelli. Non mi riferisco solo al fatto che oggi la Terra di Mezzo è entrata a far parte dell’immaginario collettivo — se oggi diciamo “Hobbit” o “Elfi”, tutti pensano immediatamente a quelli rappresentati nei film di Peter Jackson. È proprio da qui che nasce la domanda: prima delle sue trasposizioni cinematografiche, non tutti sapevano cosa fosse un Hobbit, a meno che non avessero letto i romanzi. Oggi invece lo sanno praticamente tutti, e molti associano immediatamente anche i volti degli attori ai personaggi. Ma non è solo una questione di visibilità.
Il rischio è anche quello di stamparsi in testa l’immagine di un elfo con una parrucca decisamente discutibile…
Secondo me, la cultura pop e quella accademica sono molto più interconnesse di quanto si creda, e si influenzano a vicenda. Peter Jackson, per realizzare i suoi film, ha consultato alcuni dei massimi esperti mondiali di Tolkien. Non ha improvvisato, si è documentato a fondo, e questo si percepisce nel risultato finale — anche se, naturalmente, il tutto è stato adattato a esigenze cinematografiche e commerciali, che sono inevitabili in un’opera destinata a un pubblico globale. Però, rispetto ad altre operazioni meno riuscite, la prima trilogia di Jackson è generalmente considerata un buon prodotto derivato. È una trasposizione che, pur con le sue licenze, ha saputo restituire una parte importante dello spirito dell’opera originale. C’è poi un aspetto che spesso si sottovaluta: il processo inverso. Se guardiamo al numero di tesi di laurea su Tolkien presentate prima degli anni Novanta, e lo confrontiamo con quelle che sono state scritte negli ultimi venticinque anni, cioè dopo l’uscita dei film, c’è un aumento esponenziale. L’interesse per Tolkien in ambito accademico è esploso, così come nelle attività culturali, nelle pubblicazioni, nei convegni. È la dimostrazione di quanto la cultura pop possa fungere da stimolo anche per lo studio serio e approfondito. Quindi sì, io credo che tutto questo, nel complesso, abbia fatto bene a Tolkien. Questo non significa, ovviamente, che tutti i prodotti derivati siano validi. Ci sono trasposizioni o adattamenti che non colgono affatto le tematiche centrali della sua opera, che ne semplificano o addirittura stravolgono il senso. Ma questo riguarda più la critica cinematografica o letteraria. L’opera di Tolkien resta lì, intatta, e l’importante è continuare a tornarci. Conosco molti giovani — o persone che erano molto giovani all’inizio degli anni Duemila — che hanno conosciuto Tolkien proprio grazie ai film. Ma poi sono andati a leggere i romanzi. E questo, per me, è ciò che davvero conta.
Wu Ming 4, pseudonimo di Federico Guglielmi, è un membro della Wu Ming Foundation ed è noto per i suoi romanzi storici e di fantasia. Ha scritto, insieme al collettivo, il romanzo Q con lo pseudonimo di Luther Blissett, e numerosi altri romanzi tra cui 54, Manituana, Altai, e opere che mescolano fantasia e ricostruzione storica come L’invisibile ovunque, Proletkult, La macchina del vento e UFO 78. È anche autore di Stella del mattino, Il piccolo regno, La vera storia della Banda Hood e dei saggi L’eroe imperfetto, Difendere la Terra di Mezzo e Il fabbro di Oxford, questi ultimi due focalizzati sullo studio di J.R.R. Tolkien.
In copertina: Il giardino delle delizie (part.), H. Bosch


Una replica a ““Non c’è letteratura alta o bassa. C’è chi sa raccontare. E Tolkien lo sapeva”: intervista a Wu Ming 4”
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