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A venticinque anni ho avuto la mia prima crisi esistenziale (ma era solo il lavoro)

Di Serena Votano

 

Per farvi capire quanta importanza diamo al lavoro (al di là dei cliché sull’affitto e il costo della vita), basti pensare che è la prima o seconda cosa che diciamo di noi dopo aver detto il nostro nome. E a venticinque anni parlare del mio lavoro – anzi, del lavoro che non avevo più – mi mandava in crisi. Facevo una fatica bestiale per raggirare la domanda parlando delle mie passioni, dei miei viaggi o del motivo per cui mi trovassi in un determinato posto, ma alla fine percepivo nei miei interlocutori un interrogativo ricorrente: “Ma cosa fa per vivere a Milano?”. E la fatidica domanda veniva fuori: “Sì, ma che lavoro fai?”.
E a quel punto iniziava il mio solito lamento sul fatto che da poco lavoro in un posto carino, ma prima lavoravo in una casa editrice – ovvero il mio sogno. Insomma, mi rendevo conto del fatto che parlavo del mio vecchio lavoro come se fosse una ex relazione tossica, e non c’era verso, avevo quel nodo lì del sogno infranto che non riuscivo a tenere per me.
C’ho impiegato mesi, tra lacrime e rabbia repressa, prima di arrivare al fatidico momento in cui mi son detta: “Lascio questo lavoro, anche se non ho altro”, e nel bel mezzo una crisi esistenziale.

Dovevo festeggiare i venticinque anni ma mi sentivo come se fossi alla soglia dei quaranta. Davo un’esagerata importanza agli obiettivi che mi ero prefissata e che ancora non avevo raggiunto –in realtà, la mia prigione –, perché riconoscevo il fatto di essere molto giovane e che quindi se avessi bruciato tutti i miei traguardi allora la gioia avrebbe avuto un sapore più dolce, perché avrebbe voluto dire che ero invincibile. Così ogni “no”, ogni “Grazie per il tuo cv, lo terremo in considerazione per il futuro” e altre non risposte erano per me zavorre. La mia sindrome dell’impostore, poi, non mi permetteva di vivere a pieno le cose belle. Non ero l’unica, ovviamente, a convivere con questi pensieri.

Insomma, nel momento in cui le cose si erano messe male in casa editrice, mi ero detta che dovevo resistere, ero in corsa e stavo percorrendo la strada dei miei sogni, nessun ostacolo mi avrebbe fermato ma sarebbe diventato un ponte verso nuove opportunità. La realtà è che ogni “giorno no” mi aveva tolto quelle poche sicurezze di me che avevo. Ma non rinunciavo perché farlo avrebbe voluto dire tornare al punto di partenza. E mi rifugiavo nei miei libri, tipo Franny e Zooey di JD Salinger.
Ho sempre amato Il giovane Holden e non esagero quando dico che devo tutto di me a quel libro che ancora consulto quando mi sembra che ogni cosa sia dannatamente complicata. Ma Franny… mi faceva sentire meno sola. 
Ho ripensato spesso a quel romanzo, soprattutto alle parole che la signora Glass – madre dei due fratelli citati nel titolo – dice circa a metà romanzo: «Non capisco proprio a cosa serva sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite ad essere felici». Lo rilessi nei fatidici venticinque anni, poi mai più. Proprio perché è uno di quei libri in grado di mettermi in difficoltà. Dopo ogni lettura mi sembra che tutto ciò che prima aveva un senso nella mia vita d’improvviso mi appare svuotato, misero, ipocrita.
Di recente, però, in Italia, sempre pubblicati da Einaudi, sono stati ritradotti, da Matteo Colombo – già traduttore de Il giovane Holden, tre suoi libri: Nove racconti, Franny e Zooey e Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour: presentazione (non è più: Introduzione). Ho ricomprato Franny e Zooey e non ho resistito. Dovevo rileggerlo.

 


Si tratta di una raccolta molto breve, in cui la trama è snella ma densa di dialoghi, curati a livello teatrale, e di emozioni.
Franny e Zooey nasce dall’unione di due racconti distinti: Franny, pubblicato per la prima volta sul New Yorker nel 1955, e Zooey, uscito in una versione più estesa nel 1957. Solo nel 1961 l’editore decide di unire i due testi in un unico volume, dando forma a uno dei libri più emblematici di Salinger (dopo Holden). I due fratelli sono i più giovani dei sette della famiglia Glass, una famiglia immaginaria ricorrente nella produzione dell’autore. I fratelli Glass – bambini prodigio cresciuti frequentando un quiz radiofonico chiamato I piccoli sapienti – sono personaggi affamati di sapere, attratti dalla letteratura, dalla religione, dalla filosofia e dalla psicoanalisi. Ma questa fame di assoluto li ha segnati profondamente.
Zooey dirà: «quei due bastardi ci hanno presi che eravamo belli piccoli e ci hanno reso dei disadattati con dei criteri da disadattati, punto». Il riferimento è soprattutto a Seymour, il fratello maggiore, figura guida e tormentata che compare nel racconto Un giorno ideale per i pesci banana (contenuto in Nove racconti), e il cui suicidio ha provocato una profonda ferita all’interno della famiglia.
Nelle prime pagine Franny appare tormentata, instabile, insofferente, durante un fine settimana con il suo ragazzo, Lane. Non riesce a mangiare, continua a fumare e a scusarsi per ogni parola. Ha con sé un piccolo libro che sembra il fulcro del suo turbamento ma di cui parla con riluttanza. Mentre Lane le racconta dei suoi corsi, del college, lei appare sempre più distante, delusa dalla sua mediocrità, finché, esausta, sviene al ristorante.
Nel racconto successivo, Zooey, scopriamo che quel libretto è appartenuto a Seymour, e che Franny è tornata dalla famiglia ed è in uno stato di completo isolamento: non mangia, non si alza dal divano, legge e prega in silenzio. La sua crisi profonda è legata a un bisogno di autenticità nella vita, ispirata dal Viaggio d’un pellegrino.
Zooey nel frattempo è in bagno e discute animatamente con la loro madre, Bessie, che lo supplica di intervenire, di fare qualcosa per aiutare Franny. Zooey è cinico, perfezionista e arrogante, tende a sentirsi sempre un passo avanti agli altri, non è esattamente il tipo di persona empatica di cui si ha bisogno in un momento di crisi. Eppure sarà proprio lui, a modo suo, a tentare di raggiungere Franny e di farle comprendere due o tre cose che forse lei non sa su Seymour.
«Tu non affronti la realtà. Ed è questo dannato vizio di non affrontare la realtà ad averti ridotta in questo stato, e certo non potrà tirartene fuori.»

Sono passati tre anni dalla mia prima crisi esistenziale. Il quel periodo mi chiedevo in continuazione: “Che lavoro voglio fare?”, ma in realtà la domanda era un’altra: “Chi voglio essere?”. Lavoro e identità erano un tutt’uno. Dal lavoro dipendeva tutto ciò che mi definiva – la possibilità di leggere e scrivere di libri, di pagarmi da mangiare, di avere una casa.
Avevo sempre creduto di avere una passione unica, una fame di lettura che mi rendeva diversa, presuntuosamente speciale. Ma il mio stupido ego si era appena scontrato con la realtà dell’editoria: stipendi ridicoli, contratti inesistenti, compromessi, favori tra amici, e una fila infinita di persone pronte a calpestarti pur di avere il tuo posto. Adesso ho qualche pensiero in meno, ma qualche dubbio in più. Come Franny si abbandona alla preghiera infinita, io mi lascio andare a una sospensione tra la persona che desideravo essere e quella che ancora non conosco.

Non voglio dire che associare la propria identità al lavoro sia il male assoluto – e altri proclami –, voglio dire che definire la mia identità con un ruolo, un sogno, non è una cosa che posso controllare. L’identità non è un atto che conquisti per sempre, essere autentici vuol dire aprirsi all’imprevedibile, senza tradire le proprie passioni. Vuol dire tradirsi, anche. Accettare che il proprio percorso possa essere incompleto, contraddittorio, incerto.
Il mio rapporto con il lavoro continua a essere complicato, e la mia sindrome dell’impostare mi rende ancora infelice, e su una cosa sono sempre d’accordo con Franny: «Sono stanca di tutto questo ego, ego, ego. Il mio e quello degli altri. Stanca di quelli che vogliono arrivare, fare cose prestigiose, essere interessanti».

 


In copertina: Morning sun by E. Hopper


 

2 risposte a “A venticinque anni ho avuto la mia prima crisi esistenziale (ma era solo il lavoro)”

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