, , ,

Itaca è ebbra, ma la parola è sobria

Di Maria La Bianca

 

Sei tornato, o sei sempre stato qui?
Nella terra dei poeti non ci sono più fiamme
né voci di sirene.
Mentre Itaca brucia, la cospargi di petali rossi.
Nuda, danzo sulle sue macerie.

 

 

In Itaca Ebbra (Interno Libri) Bia Cusumano ci porta con sé nel suo personale viaggio di emancipazione dal dolore, dall’Itaca dell’appartenenza subita a quella della riappropriazione della propria nascita attraverso un percorso solo apparentemente contraddittorio di partenze e ritorni. E lo fa attraverso la sua parola poetica, parola sobria, asciutta, in un’altra antitesi con
l’affermazione del titolo che vuole la sua Itaca necessariamente ebbra.

Itaca, luogo simbolico del ritorno, non può esistere senza una partenza. Ma quale partenza? Da uno stato di incoscienza, da un dolore ancora incompreso, o piuttosto dal bisogno di ritrovare, nell’ebbrezza stessa, la scintilla originaria della vita? Sembra che per Cusumano non esista una scelta univoca, ma la necessità di abitare l’interstizio stesso tra l’andare e il tornare. Fare del movimento, dell’alternanza, della tensione irrisolta, un modo di essere al mondo. Nonostante le perdite, nonostante gli abbandoni.

Dalla poetica dell’abbandono si passa a quella della distanza, come cifra esistenziale e atto politico dell’anima: “Ogni volta che mi neghi / esisto con più forza” (p. 30). È nella distanza che si afferma la soggettività poetica, che l’io lirico si fa nucleo di resistenza. L’altro fugge – e nella fuga tradisce la distanza – mentre la poeta resta, ma resta per partire. “Il poeta fugge per amore, resta per partire” (p. 31): un ossimoro che è dichiarazione di poetica e di intenti.

Possiamo allora parlare di una poetica delle contraddizioni, in cui il paradosso non è solo figura retorica, ma necessità ontologica. Accoglierle, farle proprie, riconoscerle, diventa la strada per una pienezza che non si risolve nell’unità, ma nell’interezza dell’essere umano. Maschile e femminile convivono, si attraversano, si riconoscono oltre le categorie biologiche, nella consapevolezza culturale che forza e fragilità non sono antagonisti, ma aspetti compresenti in ogni individuo.

E proprio in quel “ciò che resta” – titolo denso e stratificato – si condensa uno dei nuclei centrali della poetica di Cusumano: il confronto con la perdita. Che fare con ciò che resta? Omettere, consegnare all’oblio, o ricordare per dimenticare? È in questa tensione che si apre un nuovo spazio poetico: quello della riparazione. “L’amore ha le sue soluzioni” (p. 29), ci dice, e sono soluzioni che non risiedono nei “dovrei” della colpa o del dovere, ma nella parola che si fa testimonianza, affermazione, presenza. Ironia e consapevolezza diventano strumenti per il riscatto. Itaca non è solo il punto d’arrivo, ma anche il terreno in cui si compie la riconquista di sé.
Se l’amore sentimentale esige reciprocità, nel mito – e nel mito personale rielaborato poeticamente – esso trova la sua sublimazione. Le dediche disseminate nel testo, rivolte soprattutto alle donne della sorellanza, si muovono tra confessione e pudore, verità dichiarata e segreto taciuto: “Bacio il male e lo assolvo” (p. 41). E ancora: “Mi sono uccisa io”, ma anche “Il desiderio non conosce colpe”. È qui che la fragilità diventa forza, ed è nella vulnerabilità che si compie l’atto poetico di assoluzione.

Il viaggio verso e da Itaca è, in definitiva, una ricerca incessante di verità. Una verità che,  citando Rita Atria, “costa la vita” (p. 47). I poeti – e in questo caso la poeta – sono mendicanti di verità. Non una verità assoluta, ma quella che nasce dallo scontro con l’imperfezione, dalla fedeltà all’esperienza vissuta.

Così, la poetica della perdita, dell’abbandono, della distanza, della contraddizione e infine della riparazione, si fa poetica della verità. Non una verità lineare, ma molteplice, ferita, riconquistata. Una verità che non consola, ma riconcilia. E ci restituisce, attraverso la parola, alla nostra umanità più profonda.


 

Bia Cusumano vive a Castelvetrano e insegna Letteratura italiana e latina al Polo Liceale della sua città. È stata ideatrice e direttore culturale del PalmosaFest, primo Festival di Arte e Letteratura della città di Castelvetrano. Ha scritto due sillogi poetiche: De sideribus e Come la voce al canto. Esordisce nella narrativa con un libro scritto a quattro mani con il filosofo Fabio Gabrielli, Sulla soglia del filo spinato. Storia di una bambina trasparente e di un bambino con un nome. Sempre con il filosofo Fabio Gabrielli ha pubblicato per Ex Libris Edizioni, Lo stupore del quotidiano, Quattro incontri con Wislawa Szymborska. Nel 2022 ha vinto il Premio Donna Siciliana e fa parte della Accademia di Sicilia per meriti letterari. Pubblica recensioni e articoli di letteratura su diverse testate giornalistiche e attualmente ha una rubrica letteraria, “Faro di Posizione”, su un quotidiano della sua città. Ha pubblicato nel 2023 Trame Tradite proseguendo sulla via della prosa senza mai smettere di comporre versi.


 

In copertina: The Philosophers, Dorothea Tanning

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.