Intervista a cura di Giulia Bocchio
Difficile non notare la casa editrice Mercurio Books quando si va a una fiera o a un festival: l’impatto estetico è sotto gli occhi di tutti, ma occorre osservare da vicino questi libri-soglia, perché raccontano qualcosa di più profondo di una pubblicazione in senso tradizionale.
C’è un margine, un punto di soglia tra ciò che leggiamo e ciò che siamo, tra la forma classica di un libro e il rito di attraversarlo. Con Matteo Trevisani – uno dei membri di questo progetto editoriale – ci siamo addentrati in un dialogo che è una cartografia emotiva e intellettuale di un’idea autentica di pubblicazione; qui ogni atto creativo è dichiaratamente apotropaico (quasi una liturgia) come se scrivere, leggere, editare, impaginare, marchiare simboli a fuoco, non fossero che variazioni di un unico gesto antico e umanissimo: opporsi al nulla.
Tra la forma concreta di un libro e il suo attraversamento grazie alla lettura c’è, in fondo, la consacrazione di una storia, che ci comprende tutti.

G.B.: Matteo, bentrovato. Apriamo il sito della casa editrice e subito alcune frasi ci anticipano quel profondo senso di ricerca che la caratterizza: Mercurio è una coven. Un organismo rituale predisposto per la creazione di qualcosa di magico. Mercurio è un incantesimo, un atto di volontà creativa. E poi tre pilastri a reggere il tutto: letterarietà, emozione e contemporaneità.
Questo atto di volontà creativa è forse uno degli atti apotropaici più antichi del mondo: passano i secoli e noi siamo ancora qui a cercarle queste storie. Quando, a tuo avviso, una storia diventa letteratura?
M.T.: Bentrovati a voi e grazie per avermi invitato. L’atto di volontà creativa di Mercurio è un atto del sogno, del desiderio. Quando abbiamo iniziato a parlare di Mercurio, quando ancora non aveva questo nome, le prime cose ci siamo detti riguardavano il tornare indietro a quando leggere era una spinta vitale irrinunciabile, il regno delle possibilità. E quindi è questo quello che proviamo a fare, immaginare mondi che non risiedono soltanto in uno spazio ben definito ma che stanno proprio sul confine. Personalmente credo che ci siano molte risposte a quella domanda, dipende dal percorso di ciascuno nella letteratura e nelle storie. Per me riguarda la domanda su chi sono, su chi voglio essere, quale aspetto della realtà la storia che leggendo illumina. Ogni libro è una domanda sull’umano e sul senso dell’umano, è precisare questi interrogativi ciò che per me è la letteratura. Poi, subito dopo, arriva un momento trasformativo. I libri più importanti che ho letto sono quelli che mi hanno trasformato, che hanno dentro di sé una potenzialità che cambia ciò che sei, come una trasmutazione alchemica in cui storia e autore non possono cambiare se non insieme.
È anche vero che tutto ciò non è scolpito nella pietra. Quando ero adolescente venivo travolto dall’emozione della lettura, coltivavo un rapporto erotico con la conoscenza e anche se oggi è più complicato tornare a quella semplicità è nostro dovere provarci sempre.
G.B.: C’è un’altra vostra frase manifesto che mi ha colpita molto: Mercurio è tutto quello che non sapevi di poterti permettere. In che modo questa visione si traduce nel rapporto con le autrici e gli autori?
M.T.: Questa frase riguarda le emozioni. Mercurio vuole essere uno spazio sicuro dove poter provare tutte le emozioni dello spettro umano, senza vergogna. È qualcosa che stanno reimparando a fare le generazioni successive alla mia, ripartire dal capire che cosa significa provare odio, amore, vendetta, abbandono, dolore per la perdita. Vorremmo che la nostra comunità si riconoscesse in questo, perché oggi storia è anche un contenuto emotivo. Poi c’è l’aspetto formale, critico, altrettanto importante. Però per fare un esempio, nel nostro primo libro Maeve, c’è stato un grande riconoscimento collettivo in quella vendicatività senza vittimismo, nella riappropriazione della violenza. Così come ne L’altra valle, dove amore e perdita si intrecciano o in La figlia del drago di ferro, dove la libertà è una stella cupa da incendiare insieme a un drago meccanico.
G.B.: Mercurio Books è una realtà editoriale caratterizzata da un’estetica ricercata, particolareggiata e soprattutto riconoscibile: ai festival e alle fiere è difficile passare davanti al vostro stand e non rimanere ipnotizzati dalle vostre copertine. Ma anche dagli oggetti stessi che avete avuto modo di proporre, come t-shirt e taccuini recanti la scritta We are the weirdos, sportine. Quali simbologie si celano fra le grafiche dei vostri libri e dei vostri accessori?
M.T.: Vogliamo fare comunità, vogliamo creare un riconoscimento collettivo. Ecco il perché delle nostre grafiche, degli oggetti che proponiamo insieme ai libri. Vorremmo far sì che leggere libri Mercurio significhi appartenere a una visione collettiva e ovviamente non esclusiva. Per questo cerchiamo l’impatto, la riconoscibilità a tutti i costi, anche se questo significa proporre un gusto grafico che in Italia non si era mai visto prima. Vorremmo prenderci il rischio di mostrarci per quelli che siamo ecco, senza fingere. In questo primo anno molte persone si sono riconosciute nel nostro progetto e ora è tempo di ampliare ancora di più la coven. L’atto di volontà si traduce anche negli oggetti. Abbiamo marchiato a fuoco centinaia di simboli, per esempio, che sono finiti nel nostro primo kit. Ce ne saranno altri, a ogni Natale. Per noi l’atto di imprimerli personalmente è stato importantissimo: volevamo dire che ci siamo noi stessi prima di tutto dietro questo progetto, che siamo persone che desiderano, sperano, hanno paura e producono, come direbbe MacFarlane, oggetti rituali per una tribù che non esiste ancora.

G.B.: Tu, Matteo, hai maturato negli anni un’articolata e diretta esperienza nei confronti del mondo dell’editoria, vivendola in prima persona, da dentro. Vorrei chiederti questo: ti fidi più dell’autore o dell’opera? Mi spiego, quanto conoscere un autore, averlo già letto, già visto pubblicato, influenza la considerazione che avrà da parte di una realtà editoriale?
M.T.:Ci sono molti dettagli che concorrono alla decisione della pubblicazione di un libro, ma la valutazione di un’opera viene prima di tutto il resto. Credo che sia così per la maggior parte delle case editrici indipendenti. Poi intervengono anche ragioni economiche, sacrosante, ma prima di tutto si parte dalla storia e dal pubblico, dalla coerenza con la visione. Abbiamo rifiutato autori già pubblicati da grandi case editrici così come abbiamo messo al lavoro diversi esordienti. Siamo giovani abbastanza da permetterci ancora di fare scelte precise a riguardo.
G.B.: Un aspetto che affrontiamo spesso all’interno di questa rubrica è l’universo degli esordi letterari, un momento cruciale, carico di aspettative spesso distorte. Per molti, la pubblicazione del primo libro diventa un obiettivo quasi ossessivo, perseguito con un’urgenza che rischia di mettere in secondo piano l’importanza dell’opera stessa, del suo valore intrinseco e della maturazione stilistica. A volte, l’obiettivo viene raggiunto, magari con una buona casa editrice, e poi ci si accorge che può anche non succedere niente. Ti alzi il giorno dopo e il mondo è uguale alle 24 ore precedenti. Come editore, qual è la tua opinione su questo fenomeno? Quali aspetti ritieni essenziali quando si parla di esordienti?
M.T.: È vero, il mondo è identico a prima, eppure qualcosa dentro di te è cambiato. Quindi per me è un bene che si veda all’esordio con questo spirito, con questa emozione. Dopotutto è una cosa importante. Essere finalmente letti magari dopo anni che ci si prepara a farlo è un momento sacro. Poi, certamente, è qui che arriva l’editor. Io ho avuto un maestro più che un editor, che mi ha insegnato a vedere tutto in prospettiva. Ma questo si può fare dopo, anche essere sorpresi da un successo improvviso o delusi per un’attenzione che non c’è. Ma prima di tutto c’è il libro, la domanda che ci facciamo, l’immagine di noi che vogliamo dare al mondo. Poi, dopo l’esordio, che di solito è un libro in cui la tentazione è di inserire tutto il possibile, ci si rimette seduti con più ragionevolezza e si pensa al prossimo libro. Esordire è un’iniziazione a tutti gli effetti, per questo è bene farla quando si è pronti e non accelerare troppo. L’editoria e la scrittura è allenarsi all’attesa e alla pazienza. Dunque aspettare, aspettare di avere la storia giusta, la voce giusta, l’editore giusto.
G.B.: C’è qualche titolo, o qualche progetto speciale, che hai voglia di anticiparci?
M.T.: Ce n’è uno, di cui andiamo molto fieri, e che siamo molto curiosi di vedere come verrà preso dai lettori e dalle lettrici italiani. È qualcosa che non è mai stato tentato finora in Italia e non vediamo l’ora di potervene dire di più. Nel resto del mondo è stato un caso editoriale pazzesco, ma lontano dai bestseller planetari che conosciamo, almeno per il pubblico a cui si riferisce. Lo stiamo preparando per ottobre, ma credo che potremo annunciare qualcosa dopo il salone. Forse posso dire che ci sarà un dungeon, ecco.
In copertina: Atteone (part.), Parmigianino

