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Ma io quasi quasi – Dialogo aperto con Michele Bitossi

A cura di Serena Votano

 


Da sabato a giovedì, in che modo può cambiare una vita? È la domanda che mi son posta alla fine di questo romanzo, Ma io quasi quasi (Accento), esordio di Michele Bitossi.
Il protagonista Riccardo sta affrontando una burrascosa separazione, faceva uso di sostanze stupefacenti ed è sospettato di una qualche forma di abuso minorile nei confronti della figlia Nora. E giovedì, appunto, avrà luogo l’incontro con la dottoressa Fontaneto che stabilirà se Riccardo potrà continuare a vedere sua figlia oppure no.
In attesa di questo incontro Riccardo, che per lavoro fa l’osservatore calcistico per una squadra di Serie C, tenta di distaccarsi dal presente per risolvere alcuni traumi legati alla famiglia, esplorando il suo complicato rapporto con i genitori, e con le amicizie, sia di vecchia data che recenti. Che l’autore fosse anche un musicista lo si intuisce dal ritmo che permea il testo. Ciò che era impossibile da prevedere, è la penna ironica che viene fuori nei momenti più inaspettati, come quando l’autore, ascoltando una conversazione telefonica in treno – come lui stesso racconta nei ringraziamenti – trova l’ispirazione per raccontare l’ingiustizia subita da un uomo imperfetto, ma che cerca ogni giorno di dimostrare di essere un buon padre.

In occasione della fiera Book Pride a Milano, a seguito della presentazione del romanzo in coppia con David Valentini (autore che ha esordito con Tutto ciò che poteva rompersi nel 2022, di recente di nuovo in libreria con Le nostre guerre silenziose, entrambi editi da Accento) ho avuto l’opportunità di incontrare Michele Bitossi e di parlare a tu per tu del suo romanzo. Di seguito troverete la conversazione che ne è emersa.

NB: da leggere con una birra tra le mani.

 

L’autore, Michele Bitossi

 

Prima di incontrarci, avevo osato chiedere a Michele Bitossi: “Ma hai intenzione di continuare a scrivere di Riccardo?”. Dico “osato chiedere” perché il paradosso dell’esordiente vuole che il secondo romanzo sia più difficile del primo, soprattutto se l’esordio è stato accolto positivamente dai lettori e con ottime recensioni. Non appena ci sediamo a un tavolo mi confessa: Ma sai che il tuo messaggio mi ha dato un input… è una domanda che mi sto facendo. D’istinto mi viene da dire che potrebbe essere la strada più semplice per continuare a scrivere, perché ci sono dei temi irrisolti, oltre a personaggi che potrei assolutamente continuare a tratteggiare – per esempio il personaggio di Francesco, sul quale ho messo molto di mio tipo il discorso musicale, che ho voluto levare dal protagonista. Ci sono varie idee che mi potrebbero portare a sviluppare un sequel però, allo stesso tempo, ho l’impressione che potrebbe essere qualcosa di presuntuoso adesso, come se dessi già per scontato che questo libro è piaciuto. Però sono menate. Mi faccio un sacco di menate.
In questo momento credo che la scrittura debba essere vissuta come una cura, senza pensare subito a quello che sarà il secondo romanzo. Per il momento puoi permetterti di seguire il flusso… Ma vedi, il mio discorso non riguarda tanto scrivere di qualcosa che può funzionare, è un problema che non mi sono posto nemmeno durante la fase di scrittura di questo primo romanzo. Anzi, quando ho iniziato a scrivere questa storia, l’ho portata avanti, l’ho finita, mi sono stupito che Accento l’avesse così caldeggiata. Ma non perché non credessi in me stesso, nella mia scrittura, perché di avere qualcosa di potente me ne ero reso conto. Lo stesso Paolo Nori, che è un autore che io stimo molto, un amico, me l’aveva fatto notare più di una volta. A patto che avessi fatto alcune modifiche e un determinato lavoro sul testo, sarebbe stato un testo potente. Però io pensavo che il tipo di storia potesse essere equivocato, soprattutto dal mondo femminile. Ci credi che invece la maggior parte dei feedback positivi mi arrivano da ragazze, donne, libraie che organizzano le presentazioni? Mi ero fatto molti problemi, magari per il tipo di linguaggio che, in certi casi, ho voluto scegliere. Probabilmente sono rimasto scottato da quello che ho tagliato, circa duecento pagine, e che io fatico ancora a pensare di aver tagliato.
Un editing vertiginoso, come l’hai vissuto?
L’ho vissuto bene, nel senso che si trattava di consigli e feedback che arrivavano da persone che stimo molto. E motivavano il perché, secondo loro, avrei dovuto tagliare certe cose. Non si parlava di cose censurabili o che avrebbero portato il romanzo da un’altra parte, erano cose che l’avrebbero appesantito stilisticamente. David Valentini prima, in presentazione, ha parlato del fatto che i suoi dialoghi non hanno caporali. Io ho letto il suo romanzo, è vicino al mio, solo che in Ma io quasi quasi è ancora più evidente questa volontà di flusso, di scrittura senza virgolette, quindi un testo in cui ci sono tanti dialoghi, però stilisticamente inseriti in una certa maniera che può essere un po’ faticosa per il lettore. Però, il lavoro che ho fatto di sottrazione – perché sottrarre è un’arte, me ne sono reso conto –, è stato determinante. In tante cose che ho levato c’era quello che io non avrei voluto mettere in questo romanzo e fortunatamente non c’è. Cosa? Autocommiserazione, vittimismo da parte del protagonista. Mi è servito scrivere tutte quelle cose per poi rendermi conto che andava asciugato. Infatti uno dei feedback più belli che mi sono arrivati in questi due mesi, da quando è uscito il libro, è: “La storia è molto calcante e anche drammatica, ma ho riso molto”. Per me questo è il goal, era quello che volevo fare. Nella mia vita, nel mio approccio alle cose, sono una persona non paranoica ma ansiosa… È un lato che vedo in Riccardo, il lato un po’ paranoico. Sì, ho voluto raccontare questo personaggio con dei tratti paranoici che io vedo in persone che conosco. Ha questa ossessione per la crema Nivea che mi ha trasmesso, mi è piaciuto trovare l’espressione di un tic, di un vizio, che lo rende ancora più vero.
Già lui ha le sue problematiche, ha le sue ansie, ha le sue idiosincrasie. Si trova in una situazione così difficile, di punto in bianco, e cosa può fare se non assecondare e dire: “Vabbè, io sono in ballo, almeno lasciatemi le mie manie”. Alcune delle sue manie sono un qualcosa che lui vuole sconfiggere, come la dipendenza da cocaina.
Riccardo sembra vivere in uno stato di sospensione, cosa rappresenta per lui la salvezza in questo momento di incertezza? La salvezza per lui è cercare di prendere questa situazione così difficile come un’occasione. Alla fine di questa settimana saprà se potrà frequentare o meno sua figlia, la salvezza è riuscire ad aspettare, a staccare per andare ad affrontare tutta una serie di problematiche, di nodi e di sofferenze che lui ha come in un comparto da qualche parte del cuore, che sono rimaste lì, quasi ibernate. Nel primo capitolo breve è sabato, poi la domenica mattina scopre che il giovedì successivo avrà l’appuntamento con la psicologa. Quando gli arriva questa notizia è come se dicesse: “Devo staccare un attimo il cervello e anestetizzarmi, aspettare, non fare danni e usare questi giorni per staccare e affrontare le due o tre cose importantissime che devo risolvere da un po’ di tempo”.
E poi a un certo punto il romanzo diventa un “on the road”, è curiosa questa cosa… Lui si inventa un lavoro, fondamentalmente. Fa l’osservatore per questa squadra di serie C, gli hanno detto di andare a Chiavari ma fa di testa sua. Chiavari è troppo vicino a Genova, lui vuole andare un po’ più lontano e si inventa un lavoro. Un amico gli parla di questo ragazzo che gioca in una squadra di calcio nelle Marche e Riccardo sceglie di andare a vedere come gioca, contravvenendo a quelle che sono le direttive della sua società. Parte più che altro perché sa che poi dovrà incontrare sulla strada una persona importante, una ragazza che fa la musicista.
Paola è come se fosse una figura che lui stima, ammira, però è un’immagine che non vuole mai rovinare. Certo, ha rovinato troppe cose nella sua vita per rovinare pure quel rapporto lì. Per me Paola è il personaggio più importante del libro, ancora più importante di Riccardo, paradossalmente, perché è una figura idealizzata quasi. Mi viene da pensare, adesso la sparo grossa, forse Paola non esiste in verità. Forse Riccardo si è inventato una Paola. È talmente pura che lui non vuole rovinare questa relazione e chissà, magari – anche qui la sparo grossa – nel prossimo romanzo potrei raccontare di come Riccardo rovina la relazione con Paola… (Ride). No, scherzo. Però durante questo viaggio on the road, grazie a Paola, riesce a fare un passo importante: andare sulla tomba di suo papà.
Per Riccardo, allontanarsi dalle sue radici diventa un passo necessario per fare chiarezza nella sua vita, prima di quell’incontro che potrebbe cambiargliela per sempre… In quel momento staccarsi dalla sua città è fondamentale: lui si sente sotto tiro, sta attraversando una fase complicata e sa che restando a Genova potrebbe provocare solo altri danni, anche con la società. Teme di non essere lucido abbastanza da poter affrontare l’importante appuntamento che lo aspetta… Riccardo ha bisogno di andare via, di fare pace con le sue radici e con la tomba di suo padre. Probabilmente, anche se non lo ammette nel romanzo, aveva bisogno di un evento del genere per prendere coraggio e fare i conti con le sue situazioni familiari, legate al padre e alla madre. Forse non con lucidità, ma quantomeno con consapevolezza. È difficile, complicato guardarsi dentro e fare i conti con il proprio passato doloroso. Tendiamo spesso a far finta di niente, ci teniamo tutto dentro, ma è così che il dolore cresce. È la malattia della nostra generazione, o almeno della mia. Io sono del ’96.
Pensa della mia! Lo scrivo anche nel romanzo. A un certo punto Riccardo dice ad Anna, la sua attuale compagna: «Ti è crollata una diga dentro». Lei è un po’ più giovane di lui. Riccardo ha quarant’anni e fa parte di una generazione che ha dovuto farsi le ossa davvero da sola. È cresciuto con genitori che ce l’hanno messa tutta, che l’hanno amato – o almeno c’hanno provato – in maniera goffa. Ma erano persone che non contemplavano l’idea di fare analisi. C’era da lavorare, c’era da produrre… Quando si parlava di sentimenti, invece, c’era da sotterrare, c’era da insabbiare… Solo che poi i figli si ritrovano spesso a portarsi dietro i problemi dei padri… Quando Riccardo diventa padre, sente subito il bisogno di dimostrare di essere all’altezza, di meritarselo quel ruolo. Ma dentro di sé sa che ci sono ancora ferite aperte, nodi irrisolti con i suoi genitori. Dopo la morte del padre, lui e suo fratello scoprono un segreto che cambia tutto: si rendono conto che in realtà quell’uomo non lo conoscevano affatto. Riccardo capisce di averlo idealizzato per anni, mentre la madre, travolta dal dolore, si mostra improvvisamente fragile, spezzata. E così essere padre, mentre dentro si resta un figlio ferito, diventa un equilibrio difficile, dove una cosa influenza l’altra in continuazione… Si influenzano tanto, è vero, perché prima di tutto sei stato figlio. E quando diventi padre, il rischio è di riproporre – anche inconsciamente – certi schemi e certi vissuti. È un meccanismo molto pericoloso. Riccardo è un padre che si è lasciato vivere, è diventato padre senza nemmeno volerlo. Nel romanzo ammette di essersi «messo a disposizione». È un modo ignavo di vivere. Della serie: “Io sono qua, a disposizione. Senza aspettative”. Ma in realtà non è proprio così. Riccardo ha tantissima paura, vuole diventare padre ma non lo sa. Non lo capisce troppo tardi, lo capisce più avanti. Ciò che ho voluto provare a raccontare è il fatto che è una persona che si mette in discussione. E per me è una delle qualità più importanti.
Non si può mantenere per tutta la vita una stessa idea, un po’ per l’esperienza, un po’ perché le cose cambiano, anche l’individualità cambia, le passioni. Non si può essere coerenti su un’idea. Volendo si può, c’è chi ci riesce benissimo, però io ho voluto raccontare un personaggio profondamente imperfetto e, allo stesso tempo, secondo me, molto onesto. Riccardo è un cazzone, per certi aspetti. Una persona che inciampa, anche nella sua ombra, che racconta delle balle, che ha paura di tornare sui suoi passi. Però in qualche modo cade sempre in piedi… Cade sempre in piedi perché in fondo Riccardo ha un’onestà intellettuale rara. A un certo punto si rende conto che vuole spezzare il legame tra il suo vissuto come figlio – quindi il trauma che cerca di elaborare tornando sulla tomba del padre, ripercorrendo la morte del padre – e il suo essere padre. Chi leggerà il libro capirà meglio di cosa sto parlando. Lui non vuole dirsi: “Ho questi difetti, queste ansie, queste paranoie che derivano dai miei genitori”, come molti fanno, anche senza rendersene conto. Lui vuole rompere questo ciclo, sceglie di andare oltre, in un momento difficile della sua vita. Ma io quasi quasi, il titolo del libro, può essere una frase dalle varie sfaccettature. A me fa pensare a una commedia anni ’70, ma nel romanzo Riccardo dice questa frase in un contesto molto diverso. C’è una finestra aperta, il vuoto sotto, e lui dice: «Ma io quasi quasi…». Una frase sospesa che potrebbe presupporre un finale tragico.
Qualche mese fa ho visto che hai pubblicato il singolo “Sono non sono”, e anche in questo romanzo la musica gioca un ruolo molto importante. La ritroviamo in una delle scene più divertenti – quando Shel Shapiro gli ruba gli occhiali da sole in Autogrill – nei viaggi in macchina o nelle conversazioni con Francesco… Com’è stato per te passare dalla musica alla narrativa? È stato un approccio diverso o hai ritrovato delle somiglianze? Il ritmo è stato fondamentale. È qualcosa che ho sempre cercato di trasporre nei testi e ha influito molto sulla scrittura del romanzo. Fin dall’inizio avevo questa idea di fluidità e musicalità. Queste duecento pagine scarse sono frutto, come ti dicevo, di una ricerca quasi ossessiva del ritmo, che è passata attraverso un editing feroce, autocritico e veramente molto doloroso. Ho tagliato tanto, anche cose che magari sarebbero andate a inficiare questo ritmo che nasce ed è figlio e debitore diretto del modo in cui scrivo le canzoni. Il legame c’è. Passare dalle canzoni ai libri non è assolutamente immediato, però diciamo che la mia esperienza di scrittore di canzoni è stata importantissima per questo tipo di scrittura.
Penso che la musicalità sia stata molto utile per mescolare appunto dramma e ironia, ma anche per sostenere la fluidità del testo nel momento in cui scegli di non adottare le caporali. In questo senso io non ho mai sentito il bisogno di chiedermi, ma questo è un pensiero o l’ha detto davvero? Ho un’ultimissima domanda: proprio perché il tuo romanzo mi ha lasciato la sensazione di essere molto reale, secondo te qual è il confine tra realtà e verità? È affascinante, ci dovrei pensare, non è una domanda che mi sono posto durante la fase di scrittura. Nel mio caso sono partito da punti reali ma il mio obiettivo non era assolutamente raccontare una verità. Io non ho una verità. Volevo scrivere qualcosa di vivo, qualcosa che in qualche modo mi riguardasse e che potesse parlare a più gente possibile.

 


MICHELE BITOSSI

Classe 1975, diploma classico e laurea in Lettere Moderne, qualche tatuaggio di troppo, genovese che a Genova solo una cosa non ha fatto: nascere. Michele Bitossi è uno dei più stimati musicisti e songwriter del panorama musicale indipendente italiano. È anche autore, produttore, editore musicale e podcaster. Ma io quasi quasi è il suo primo romanzo.

© Studio Campo


 

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