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È ciò che è stato abbandonato a infestare noi – Intervista a Rebecca Garbin

A cura di Annachiara Atzei

 

L’habitat naturale della poesia è la distanza. Ed è proprio da un distacco – che è pensato come una forma di abbandono – che nascono i versi di Male minore (Vallecchi), attraverso i quali Rebecca Garbin cerca di circoscrivere un dolore, di individuare il luogo dove è iniziato e lì lasciarlo, per far cessare la persecuzione che da esso deriva. Nel libro, si uniscono la storia familiare e il mito, le superstizioni e i ritrovamenti, le metamorfosi e i presagi: le tante voci nella mente di chi scrive che, nel continuo dialogo con sé stessa, inventa una nuova storia che molto può avere a che fare con la storia di ciascuno.
Con questo esordio, che attinge a un immaginario variegato e complesso, l’autrice milanese viene allo scoperto e, rivelando anche una grande capacità affabulatoria, lascia che ogni lettore si appropri della sua poesia.

 

 

 

Iniziamo da qui: nel libro, affronti il tema dell’abbandono dei luoghi delle origini familiari. La poesia è strumento per abolire la lontananza, oppure serve a scoprirla piena e abitata e, quindi, illimitata?

È vero, Male minore parla di tanti abbandoni e della “persecuzione” che ne consegue. Non è un caso che la prima poesia del libro contenga una citazione diretta a The Hunting of Hill House di Shirley Jackson. Io però non credo alle case infestate – penso piuttosto che sia ciò che è stato abbandonato a infestare noi. Il problema della poesia è che esige distacco (una sua forma di abbandono), quindi le distanze, più che le lontananze, sono il suo habitat naturale. Per fortuna, però, la lontananza non è mai illimitata: è circoscritta a un dove. È proprio il limite che salva, sapere che anche il sentimento del dolore non può essere senza fine, per quanto immenso, che c’è stato un momento e un posto dove è iniziato, dove è stato scoperto. Quindi sì: il mio libro parla di un abbandono ma lo fa attraverso una serie di ritrovamenti.

Milo De Angelis, che tu citi, afferma in un saggio che, nel prepararsi alla scrittura, si muta silenziosamente ed è proprio questo mutamento che l’autore andrà a mettere nero su bianco. Per te questo esordio come è stato?

Nella mia scrittura la trasformazione è sicuramente una costante, quindi mi ritrovo molto in questa affermazione: Ogni cosa si trasforma – non posso / diventare qualcos’altro controvoglia. Esordire per me è stato venire allo scoperto: se la parola scritta è parola morta, allora scrivere un libro di poesie è quel processo antichissimo e mitologico che è il ritorno dagli inferi, anabasi varie in cui non siamo mai soli: Inanna che scende nell’aldilà per incontrare la sorella mostruosa, il suo doppio; Orfeo che si volta appena prima dell’uscita; Lazzaro morto da quattro giorni che viene fuori dalla sua tomba, ma solo quando viene chiamato. Sono contenta che Male minore non appartenga più solo a me. Ci appropriamo senza accorgercene di ogni poesia che abbiamo amato, di ogni libro su cui abbiamo apposto un segno.

 

L’autrice, Rebecca Garbin

 

Le tue poesie descrivono circostanze legate al mito e alla favola, come se queste continuassero a seguirti mentre cerchi di decifrarne il significato. In che modo entrano nella tua biografia?

Sono molto superstiziosa. Per me le favole e le leggende non hanno un significato simbolico ma sono veri e propri segni, figure (per dirla con Auerbach) che rimandano avanti e indietro a un altro punto nel tempo – sono un presagio e una riproposizione. Faccio fatica a fidarmi delle coincidenze. Penso sempre a un verso dal primo libro di Antonio Riccardi: Chiamo queste vite in
una storia, anche quelle che non muoiono, che esistono al plurale.

E come si inserisce la tradizione orale nella tua attitudine a narrare anche in versi?

Non credo esista una tradizione che non sia almeno in parte orale. Per me, però, l’oralità è un fatto quasi privato: nei miei versi compaiono le parole che mi sono state dette da persone che ho
conosciuto e a cui ho voluto bene, ad esempio:

(…)

«Quando ero piccola volevo toccargli i baffi
ma, non so perché, solo da un lato
ora ch’è fermo sul divano ci ho provato,
sai a toccare l’altro lato, come per gioco

ed era freddo, anche di giugno, è stato come
toccare l’altro lato della luna».

Questa cosa la mia amica A. l’ha detta davvero, io l’ho ripetuta per anni. Parlo di continuo con me stessa, ma la voce nella mia testa cambia sempre: quando ero piccola era quella del doppiatore italiano di Nigel Marven, che conduceva il programma Prehistoric Park. Prima ho parlato di come da lettori ci si impadronisca della poesia, quindi delle parole degli altri – io mi sono sempre appropriata anche delle loro voci. Vorrei che qualcuno si appropriasse anche della mia.

Male minore evoca la possibilità di una scelta. Che ruolo ha, in questo, la capacità di immaginare?

È sempre difficile rispondere a questa domanda. Isabella Leardini, nella sua nota introduttiva, non lascia spazio a equivoci: «In questo esordio, che è una pietra dura sotto il riflesso dell’acqua, si nasconde una forte dimensione politica: il male minore è la malattia della mente, materia oscura che trascina sul fondo la forza vitale». Se il male del titolo trascina sul fondo la forza vitale, non basta a cancellarla. Non c’è un male che sia davvero minore, il male in sé è sempre minore. A essere maggiore è qualcos’altro: non per forza un bene ma il mondo, la possibilità di un progetto di cui essere parte (lo scriveva Sereni) che faccia sembrare piccola ogni sofferenza. C’è una poesia di Antonio Porta, la 9. dalla sezione Airone de Il giardiniere contro il becchino che sento vicina, non nella felicità del limite ma nell’entusiasmo con cui è stata scritta, con cui è stata scritta ogni poesia:

vivere un intero mattino,
questo è un risultato,
la mia lingua batte su questo mattino,
voi stelle estranee siete dove siete
io rimango al di qua
in preda al vento.
*


Cinque poesie da Male minore (Vallecchi)

La casa di Serravalle I

Dolore sopra dolore ha chiuso ogni spiraglio, staremo per un’ora
senza luce. C’è sangue nel bianco dell’uovo
è la pelle che si strappa per intenzione, la ferita che da solo
ti scavi nel sonno.

Io so che certe volte hai pensato di morire,
certe cose lasciano il segno, vorrei
farti un buco nel petto e sdraiarmici dentro, farmi spazio nel tuo centro
sotto il guscio dello sterno e darti costole per ali,
somigliare anch’io a un uccello, quelli con la testa bianca
sempre neri contro il sole.
*

Nel segno del serpente

Siamo nati entrambi in inverno.
Avevo paura di lui, lui aveva paura
della bocca che già aveva la sua forma
e delle gambe strette a croce,
le ginocchia che combaciano
la schiena troppo curva, della curva
che mi cade dalla fronte fino all’occhio
l’occhio privo di riflessi.

Noi abbiamo il sangue freddo
come i rettili e gli uccelli

‹‹Non scorre in silenzio›› mi dice mio padre muovendo
le mani per imitazione ‹‹in questa famiglia
che non invecchia e si lascia morire››.
*

Esercizi di autocontrollo

L’urto dei denti, uno schiaffo non basta
davanti allo specchio. Poi il segno sul braccio,
staccare la crosta sperando che resti.
Cucirsi la bocca stringendo i capelli tra i denti
– anche il tempo è materia che stringe lo scheletro –
e non mangiare nient’altro. È così che passo
da un buco di serratura a un altro.
Per fortuna non restano lividi, ho strati diversi di pelle
e ogni corpo mi cambia la forma, la faccia.
Ogni cosa si trasforma – non posso
qualcos’altro controvoglia.
*

I

In certi posti non esisti per davvero
nel dispiegarsi degli ingressi (Porta Volta,
Porta Nuova, Garibaldi e via dicendo).
Lo scoppio dei motori buca i timpani sott’acqua –
c’è tutta una città sottomarina che non vedi
che disgela in inverno – sua lucerna
è l’agnello – o le luminarie
del presepe di novembre su Corso Buenos Aires.
nel battito del neon possiamo perdere le palpebre

non vedere più nessuno.

‹‹Oggi io e M. saltavamo scuola, lui abitava
qui vicino, in quella casa, la villetta con giardino
che adesso è sempre vuota –
siamo andati all’acquario quel giorno,
che siamo scesi in bic, che non c’era
l’ora di tornare››.

È stato un giorno perfetto, M.
ha deciso di morire lo stesso,
o almeno ci ha provato.
*

Intermezzo

Chi è rimasto ancora difende i cortili
L’ultimo avamposto di un quartiere popolare.
Mentre io, sul diretto che affaccia sul Lambro,
mi chiedo cosa resta di Milano:
il sole da vicino sa di ovatta e borotalco
e sembra strano se ci pensi, il venti marzo
o giù di lì, anche qui è lo stesso giorno
di cinque anni fa, quando mi aspettavi,
alla fermata del dieci con le calze bianche –
meglio di tutto ricordo le spalle,
lo zaino grande. Andavamo insieme alla fiera
a riempire le vie intorno ai Navigli.
adesso, di quella che chiamavo Senigallia
non resta che una traccia, qualche cerchio nell’asfalto
l’impronta del mercato.

 

 

 


Rebecca Garbin (Milano, 2001), con Male minore nel 2023 ha vinto la sezione Inediti Under 25 del Premio Alma Mater Violani Landi, assegnato dall’Università di Bologna. È stata tra i giovani autori selezionati per il progetto promosso dall’Università IULM, La poesia che si fa città.
Un’anticipazione da questo libro è uscita sul numero 24 di Poesia (Crocetti, 2024). Collabora con
il blog vallecchipoesia.it e con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.


In copertina: Sopra Vitebsk, Marc Chagall

Una replica a “È ciò che è stato abbandonato a infestare noi – Intervista a Rebecca Garbin”

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