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Il nemico armato è l’occhio: Scisma, di Ilaria Palomba

Di Annachiara Atzei

 

Nel duro scontro della mente contro sé stessa qualcosa riaffiora: siamo noi. La scissione psichica crea il doppio. Il doppio non è altro che la proiezione di un conflitto intimo e profondo che porta con sé la liberazione interiore. Tutto questo, a caro prezzo: incontrare l’altro, dimenticarlo, o addirittura ucciderlo. L’io, attraverso la separazione, proietta sull’altro pulsioni e desideri e spinge alla totale negazione fino a fargli sentenziare di non essere lui. Di alter ego come altro da sé, come contenitore, come compagno, come creatura o macchina la letteratura, il teatro e il cinema brulicano, seducendoci. “Era l’alta marea in me/ a gettare scompiglio,/ era l’altra, colei che/ non voglio, e non sono”, dice, su questo, un verso di Scisma, la preziosa raccolta di Ilaria Palomba scritta per Les Flâneurs Edizioni. Qui, l’autrice affronta il delicato tema del suicidio, della ospedalizzazione, della psichiatrizzazione e della disabilità partendo dal diario poetico scritto durante la lunga degenza nell’unità spinale del CTO di Garbatella dal 25 maggio al 28 ottobre 2022, dopo un mese di rianimazione all’ospedale San Giovanni Addolorata. Per farlo, descrive coraggiosamente un percorso privato, un passaggio di stato sofferto in cui si scontra con sé stessa e con il proprio corpo, o con ciò che di esso resta. Fino a mettere in dubbio che qualcosa di umano ancora ci sia, tentare di recuperarlo, riportarlo alla piena luce. È un corpo esploso, il suo, che, nonostante tutto, resta vivo. Per questo, Scisma non è solo un libro che racconta una vicenda piena di desolazione ma è anche un atto di resistenza e rinascita che ci mette di fronte a un’etica del dolore ormai rimossa dalla società e ci spinge a considerarlo come valore. L’afflizione dell’autrice, infatti, ha la capacità di purificare. È catartica e non teme di rimanere soffocata tra le scorie della positività a tutti i costi. Ed è verbalizzata, a suo modo, tramite la poesia: “Si è ridotta ai minimi termini la scrittura”, scrive Palomba: si è fatta strumento di ricongiunzione, di ricerca di corrispondenza tra le diverse parti di sé. In perfetto equilibrio tra il silenzio e il dire, nella reciproca relazione tra essi, emerge dai versi la strenuità della lotta, la costante paura del fallimento, la richiesta di aiuto, la ricerca di un Dio rinnegato, la necessità di amarsi ed essere amata. Nei testi, Ilaria Palomba arriva a rifiutare il proprio nome. Lo abbandona, lo dimentica, gli addebita ogni colpa. E questo è il primo segno dell’allontanamento da sé stessa, dello sdoppiamento: il destino le ha concesso inaspettatamente di sopravvivere al tentativo di morire, qual è la strategia per accettare la nuova esistenza? Perdere la memoria, chiudere l’occhio dietro la schiena, reimparare. Ipotizzare un nuovo inizio.

 

 

Ma, uno degli ostacoli più temuti nel tragitto verso la risalita resta lo stigma. E la vergogna. Nessuno ha pietà dei suicidi, anche se salvati. Non si perdona il difetto, lo sbaglio, l’aver fallito nel tentativo di stare al mondo. E non si perdona la disabilità. Diviene difficile, allora, se la mente e il corpo sono infragiliti dalla malattia, con un fisico compromesso e non più ritenuto valido, pensare di ripresentarsi davanti a una collettività spesso incapace di accogliere la “difformità” e la “diversità” o ciò che è considerato tale. La pena per chi ci sta intorno viene oggi del tutto a mancare: siamo insensibili, la nostra anima è callosa e non ricettiva: ci proteggiamo dall’altro per non cadere nel nostro stesso turbamento e nella nostra stessa paura del limite, dice Byung-Chul Han ne La società senza dolore (Einaudi). E scrive Palomba: “Tutti restano fino a non vedere riflesso nel tuo volto il loro destino. Chi scende molto in basso rimanda agli altri l’immagine di ciò che sono”. Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza e chiudersi in una incoraggiante finta sicurezza ci costringe a stare sigillati in una gabbia che noi stessi abbiamo costruito, afferma ancora Han. Il dolore come segno di debolezza – l’handicap come segno di debolezza – sono considerati come qualcosa da celare o da eliminare in nome dell’ottimizzazione.
Incompatibili con la performance in una società attiva e dominata dal poter fare. Dalla riflessione fatta dall’autrice durante il tempo della cura, dal suo combattuto silenzio interiore, nell’intento di ritrovare spazio per la vera sé, emerge la poesia – la sua e quella degli autori amati: Metz, Rosselli, Pizarnik, Glück e altri. Ed emerge la scrittura. I suoi versi sono spezzati come la sua figura, sono frammenti che si uniscono in una suggestiva armonia letteraria per ottenere la quale Palomba non teme di usare la parola necessaria a dire quel che va detto. Non gira intorno al concetto di morte e di paralisi, ma ci entra dentro. Non ha paura di parlare di ossa rotte, di farmaci e di letti sporcati dai ricoverati come lei. Non si nasconde. E, allo stesso tempo, in alcuni momenti i versi si fanno più rarefatti, chiamando a sé l’ineffabile e il lontano. Tornano al bisbiglio e, di nuovo, al silenzio dove il trauma sedimenta e fruttifica.
Come scrive Eugenio Borgna nel volume In ascolto del silenzio (Einaudi) a proposito del rapporto del medico con i pazienti psichiatrici, chi tace lascia intravedere tracce di oscurità, di fascinazione e di speranza. Il silenzio, nel suo apparente mistero, rende palpitante e viva la parola. In esso, si può scandagliare liberamente il proprio stato d’animo. Il silenzio è denso di significato ed è prezioso provare ad ascoltarlo. E cita Emily Dickinson: “La parola – scriveva – è un sintomo di affetto/ e il silenzio un altro – / la più perfetta comunicazione/ non è udita da alcuno/ esiste e sua conferma/ la si ha dentro”.
C’è un cammino dietro questi due inscindibili contrari e c’è una presa di coscienza spesso dura da
raggiungere. Bisogna lasciare andare qualcosa: solo dimenticandosi di sé, infatti, è possibile rialzarsi dalla caduta e tornare alla vita.


Cinque poesie da Scisma (Les Flaneurs Edizioni, 2024)

Giorno 0
La casa vuota dei nomi
la casa del deserto
per il suono dell’organo
nera luce intorno
non hai più Dio
è il Dio dell’abbandono
il tuo nome di grafite
decomposto parla
con i morti
il cimitero della mente
epidemia
diecimila voci rapaci
il nemico armato
è l’occhio
il nemico interno
è l’altro
un plotone di sguardi
i blister
la finestra
le gambe raccolte
i palazzi al rovescio
scempio.
*

Giorno 1
Non immaginavo di aprire gli occhi
la voce disse: Ingoia la fame.
E poi la finestra, i vetri,
di schiena, rovescia i palazzi.
Mi sveglio nella foschia del dolore,
Quale parte di me è rimasta?
Siamo nell’aldilà?, chiedo.
No, siamo molto aldiquà, dice.
Cosa mi aspetta?
Nessuno sa se supererai la notte.
*

Giorno 61
L’assetto di un nuovo corpo
stabilizzare i nervi, subire
il fascino dell’immaginazione.
Cos’è un corpo? Vivo frammento
erratico. Corpo vivo/Corpo morto.
Tra poco torno a casa, un guscio
amplificato a frastuono. Ho voglia
di rivedere i miei libri, di toccarli.
Tornare a Hölderlin, Proust,
nella ruota del tempo,
dove tutto ha avuto fine
e iniziare daccapo a tremare, e a
credere. Restano i desideri muti,
gli spazi mancanti, un vuoto cavo.
*

Giorno 71
La sottrazione assoluta, l’azzeramento dei conti. Un bilanciere. Tutti restano solo fino al punto di non vedere riflesso nel tuo volto il loro destino. Chi scende molto in basso rimanda agli altri l’immagine di ciò che sono. Devi saperlo gestire questo dono, questo orrore, devi saperlo tenere tra le mani. Estranea a te stessa ma vicina agli altri. Il corpo non è più tuo. È un coro.

Era il sadico in me a decidere, non il masochista: non il freddo e il crudele ma lo scienziato, il medico.

Io sono il medico del mio corpo che non è più mio. Io sono questo volto che non mi appartiene. Io
sono queste gambe che non sanno camminare. Io sono questo piede incapace di muoversi. E io non sono nulla di tutto questo. Lei vive, è tornata a vivere, è ancora unita al corpo. Lo smembramento è l’inizio dello scisma.
*

Giorno 86
Fuori dall’ospedale, la carne piena di squarci.
Torna nella casa del salto, torna all’uomo.
Il dolore verrà, lo senti nei muri.
Perdona l’impeto, perdona il corpo.
Scissa, guarda l’altra, guardami.

 


In copertina: Victor Brauner, Le ver luisant, 1933

Una replica a “Il nemico armato è l’occhio: Scisma, di Ilaria Palomba”

  1. Invio se fosse possibile e di vostro interessa una mia breve nota critica Polifema , il nuovo romanzo di Gabriella Cinti, che ha avuto molti riconoscimenti e premi. Spero sia per voi interessante pubblicarla sul blog Un cordiale saluto

    Fabia Ghenzovich

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