Cosa compone un bosco? E cosa s-compone la realtà? Attenzione alle domande specifiche, ci sono narrazioni che non sono fatte per fornire risposte: è il paradosso sensuale che abita il linguaggio creativo, questo può costruire un immaginario e sottrargli senso, confondere per tentare di convincere, comporre una fitta ragnatela di pseudo eventi e poi moltiplicare tutto per zero. Se fossimo in un contesto puramente matematico potremmo dire che la scrittura ha decisamente il potere assorbente dello zero quando fai una moltiplicazione. Ma davvero, a quel punto, converrebbe chiamarlo potere? Non è questo il momento di decidere. Certo è che i racconti che compaiono all’interno della raccolta Bosco (déclic edizioni), di Antonio Vangone, sono inclassificabili, acutamente assurdi, indigesti e quindi magnetici. Ve ne proponiamo uno, si intitola Ragazzo dorato.
Anche non capire è una diagnosi letteraria (liminale e non letterale).
Giulia Bocchio

Ragazzo dorato
Il ragazzo dorato era alto e duro e odorava di acetato e di maschio e lui lo odiava per questo, si sedeva al suo fianco col corpo grande occupando spazi che lui non poteva riempire ma che sentiva suoi e rideva e ruggiva e lui lo odiava per questo. Come garante di pace sentiva di non valere poi molto. Che gli ripetessero che era un attestato di stima gli dava ai nervi, che fosse detto perché era tanto tranquillo lo umiliava, lo elevava a sacrificio, cosa hai risposto a quella domanda e come hai fatto quell’esercizio e portava pazienza, gli sbadigliava in faccia mostrava le gengive e portava pazienza, lo sbattere dei piedi il battere della penna e portava pazienza perché non conosceva altre reazioni. Già intorno era il disordine. Mucchi di omini pelosi a cui era assolutamente impreparato, lasciati liberi di correre toccarsi strusciarsi latrando e gioendo. Assolutamente impreparati erano a loro stessi e si stupivano di lui, che sull’altare non ci stava troppo bene.
Il ragazzo dorato splendeva tra tutti. Non comandava anche se avrebbe potuto. Non poteva essere disturbato. Non si prestava, nobile e selvaggio e disteso, tramonto e alba dalle porte bianche di plastica, sui banchi verdi e le macchie lattiginose di colla, i pennarelli colorati, le finestre sbarrate e i pavimenti sporchi.
Tornava e puzzava di sigaretta, ghignava a Monica gentile e minuta, stendeva la faccia e le gambe e agitava le mani larghe. Ogni tanto quelle mani larghe si stringevano attorno alla sua spalla o al suo polso per chiedere una parola. Mai forte, il ragazzo dorato non aveva bisogno di forza. Non dava prova di avere bisogno: non a chi lo stimava intangibile; non a chi voleva dargli; non a lui che non voleva.
Solo una volta gli chiese di fare a metà. Fecero a metà, nel complesso non serviva poi a molto, ma una sera servì e non bastarono i fogli grigi di toner, colpa di una sua dimenticanza. Messo alle strette inventò e fu la sua prima invenzione.
Una telefonata e andò sua mamma, lui rimase a casa tra i lampi colorati degli schermi, stordito. Immaginava il ragazzo dorato intrappolato in una piccola cucina con la frutta di terracotta e la tovaglia a quadri, di fronte a lui una mamma uguale alla sua, solo più stopposa, i due parlottano ed è tutto un bollire silenzioso, poi la sua mamma suona il campanello e i due trascinano i piedi fino alla porta e sulla porta rimangono, non la invitano a entrare. Sua mamma chiede e la mamma del ragazzo dorato china il capo, il ragazzo dorato protesta ma non serve, sospira lei, allora lui va in camera sua e strappa lo zaino dalla sedia a cui è appeso dal primo pomeriggio, lo fruga in cerca della copertina verde e azzurra e torna a passo svelto sull’uscio, non correndo, a passo svelto.
Quando la porta d’ingresso si aprì e gli venne reso il necessario lo guardò con nuovo disinteresse, chiese piuttosto è andato tutto bene e gli venne risposto sì, solo sì, poi che è stata gentile, la mamma.
Immaginava il ragazzo dorato infervorato per l’offesa subita, la notte prima di addormentarsi, essere stanato così, ma la mattina dopo il ragazzo dorato si presentò perfettamente uguale a ogni altra mattina, come sempre non lo salutò. Trascinava la sedia e si allungava.
Le ore passarono senza alcuna attenzione. Stava proteso verso il ragazzo dorato, assorto nel tentativo di leggergli qualcosa nel viso triangolare, asciutto e già sporco di lanugine: temeva la sua rabbia, che il suo rancore potesse balzargli di colpo addosso, che lo additasse agli altri come ladro e traditore; invece continuava a sbadigliare, contorcersi sulla sedia, infastidire Monica e stringergli la spalla domandandogli piatto questo e quello. Quando fu il momento di andare e gli porse ciò che era anche suo tacque, nemmeno lo guardò, se ne andò fischiettando allegro. Rimase inviolato. Lui lo odiò anche per quello.
La presenza del ragazzo dorato gli risultava sempre più intollerabile. Camminava verso casa, sei giorni a settimana, tra gli schiamazzi degli altri e i suoi pensieri che si inseguivano, la piazza si spalancava e loro si rincorrevano in cerca di una via di fuga, sempre più numerosi e chiassosi, moltiplicati ogni settimana per sei, prendevano coraggio. Si sentiva maturo a pensare che poteva essere anche lui immaturo.
Un sabato sul pianerottolo c’era sua mamma che tornava con la spesa, il pane nella carta verdognola il latte le uova il burro e una bottiglia di Coca-Cola e i biscotti e che altro, lui la vide e scoppiò a piangere.
Poche insistenze e le raccontò una nuova invenzione: un pugno in corridoio, stava andando in bagno e non c’era nessuno. Se ne discusse quietamente, lo hai detto? Scrollò la testa. Ci avrebbero pensato loro: lui non doveva preoccuparsi.
Non si preoccupò quando il lunedì vide arrivare il ragazzo dorato e nemmeno quando lo vide alzarsi per essere portato via. Si preoccupò invece quando il ragazzo dorato tornò a sedersi al suo fianco e le ore tornarono a trascorrere come sempre e qualcuno si avvicinò per chiedergli cosa fosse successo e il ragazzo dorato scrollò le spalle e disse che non aveva capito ma non era niente d’importante, solo un rapido sguardo gli disse che sapeva, sapeva ma non gli importava.
Si arrese. Si arrese ad altri tre mesi, spesi a immaginare persone nuove e gentili, altri con cui potesse parlare senza spinte, pavimenti puliti e finestre senza sbarre. La promessa l’aveva già strappata; gli dispiaceva solo di lasciare indietro Monica, sapeva che gli sarebbe sempre dispiaciuto, anche dopo quindici anni. Però alla fine non ci fu bisogno di fuggire: il problema si risolse da sé, come tutti i problemi.
Antonio Vangone (1995) vive in provincia di Napoli. Finalista al Premio Raduga 2017, suoi testi sono apparsi su SPLIT, Tremila battute, Pastrengo, Clean, Risme, COYE, La morte per acqua e altre riviste letterarie. Alcuni suoi racconti sono stati inclusi nelle antologie multiperso (pièdimosca edizioni, 2022) e L’ordine sostituito (déclic, 2024). Nel 2023 pièdimosca edizioni ha pubblicato il suo primo libro, Attribuzioni.
Questo racconto è tratto da Bosco, di Antonio Vangone. Ringraziamo Déclic e l’autore per la cortese concessione.
In copertina: artwork by Horacio Quiroz

