Paul Auster, lo scrittore morso a sangue dalla vita

Di Mauro Massari

 

Il nulla infinito nel quale si entra dopo la fine è indecifrabile, paradossale. Quasi quanto il senso più intimo di tutto ciò che viene prima. Eppure, chi meglio di lui? Chi meglio di Paul Auster ha saputo spiegare come vivere sia una scommessa, il lancio, distratto, di una moneta. Testa o croce. Non dissimile da una lunga partita a poker. Giochi d’azzardo sperando sempre nella prossima carta, anche quando sei arrivato alla fine del mazzo. Tutta la sua produzione letteraria è attraversata dalla cantilena cadenzata e puntuale del caso, una sequenza di minuscoli, strani fatterelli, di cui Paul non riesce a liberarsi. Le piccole coincidenze bizzarre, nefaste fatalità che vogliono dir nulla, eppure sembrano essere l’unica realtà davvero significativa. Il caso e la morte. La morte mordace che colpisce a volte dritta al petto, sfacciata, altre di striscio come il proiettile di una pistola impugnata male. La morte puntuale che i personaggi di Auster non aggirano mai. Anzi, ci si muovono attorno languidi, ci giocano a scacchi come il cavaliere nel Settimo Sigillo di Bergman. La morte che non si accetta ma si prova, che si lascia entrare nei minimi gesti di vita. Vita segnata dal dramma quella dello scrittore americano, irradiata di tragedia. L’overdose del figlio Daniel, la terribile scomparsa della nipotina di dieci mesi, la lunga battaglia al cancro che ha mangiato i suoi polmoni e poi il resto intorno: nonostante l’ombra oscura sulla sua esistenza Paul non ha mai smesso di scrivere. «Per fare quello che fai hai bisogno di camminare. È camminare che ti porta le parole, che ti permette di sentire il ritmo delle parole mentre le scrivi nella tua mente. Un piede avanti, poi l’altro piede, il doppio battito di tamburo del tuo cuore».

Baumgartner, l’ultimo battito, l’ultimo libro di una bibliografia imponente, il tentativo di disfarsi dei ricordi e di se stesso, il testamento scritto in ospedale di un uomo che si scopre a fine corsa. Fragile. Come i grandi grattacieli specchiati di Città di vetro che «possono rompersi in qualsiasi momento», suggeritori della caducità dell’essere, del tutto che può cambiare in un istante, della crepa in agguato sul vaso perfetto al centro del tavolo. Come le vite possibili di Archie Ferguson in 4 3 2 1, il suo grande gioco letterario che strizza l’occhio a Cortázar, un imponente assemblaggio di narrazioni competitive e complementari, uno sforzo costato una gestazione lunghissima, tre anni e mezzo di isolamento nel suo studio a Brooklyn per 866 pagine che sono gioco di bivi e parallele, l’amore per una donna come costante tra le variabili, diviso per moltiplicarlo. «Sento di aver passato tutta la vita a prepararmi per scrivere questo libro» confesserà in un’intervista all’amico regista Wim Wenders e, ad occhi chiusi, si potrebbe correre il rischio di sentirglielo dire da qualche posto lontano, con la sua voce ruvida, raschiata dalle migliaia di sigarette che non fumava più (prima abbandonate per i sigari piccoli, poi, nel tentativo di una tardiva redenzione, per la sigaretta elettronica). Avvolto in un fumo denso, senza contorni, metafora dell’instabilità stessa, e della nebbia che tanto amava («questa idea che si può cancellare il mondo mi affascina. Proprio come il silenzio che la segue o la accompagna») Paul Auster non dà l’impressione di chi addenta la vita, piuttosto di chi si è fatto mordere a sangue nel tentativo di decifrarla. Come se un capriccio della contingenza gli avesse messo in mano le chiavi di quell’immenso, grandioso, tragicomico casinò che è il mondo, senza però lasciargli tirare i dadi. Ancora un rimando bergmaniano. Scacco. Ma quando attraversi di corsa la casa in fiamme e ti salvi dall’incendio, non hai più paura al pensiero di rifarlo. Scacco matto.
Ora chiudi gli occhi e riposa, Paul.


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