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Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra – Intervista a Paolo Pecere (a cura di Elena Cirioni)

Scoprire il vero significato del viaggio, esplorare le zone del mondo insieme a quelle della propria coscienza per entrare in contatto con tutte le forme di vita, empatizzare con ciò che è distante da noi e imparare da tutte queste esperienze a decostruire il nostro ego per vivere in armonia con noi stessi e con la nostra terra.
Questo racconta il libro mondo di Paolo Pecere, Il senso della natura. Sette sentieri per la Terra, edito da Sellerio, una lettura che insegna a ridiventare umani.
Lo scrittore e filosofo ci ha raccontato le guide che l’hanno spinto verso i luoghi dei suoi viaggi e il senso delle sue ricerche.

 

 

Al centro del saggio sembra esserci l’analisi del distaccamento dalla natura che l’umanità ha fatto nel corso della sua storia. È giusta questa impressione?

L’esperienza da cui sono partito è quella di un nativo urbano che sente un costante e ritmico bisogno di allontanarsi per conoscere altri ambienti e altre vite. Da storico, mi sono reso conto che è un’esperienza condivisa, caratteristica della civiltà urbana successiva alla rivoluzione industriale: il distacco dalla vita a contatto con l’ambiente extraurbano e i suoi abitanti ha prodotto, di riflesso, una nostalgia per la cosiddetta natura selvaggia e una sua rivalutazione estetica. Provo a elaborare questo sentimento, che è ancora molto riduttivo, per ripercorrere una via di conoscenza e coinvolgimento rispetto alla Terra.

Nel libro parli di diverse guide che hanno ispirato i tuoi viaggi. Una di queste è l’esploratore e naturalista Alexander von Humboldt. Com’è nata l’idea di seguire le sue tracce?

Ho scoperto le ricerche di Humboldt diversi anni fa, incontrandole nei miei studi sulla filosofia naturale moderna. È stata un’agnizione: non soltanto Humboldt era un filosofo-scienziato che si era formato in un mondo intellettuale tedesco che conosco bene. Era pure un viaggiatore, che attraversando le Americhe ha segnato una svolta nel pensiero ecologico, e uno scrittore che cercava di collegare ricerche e viaggi in un unico racconto. Il suo pensiero teorizza esplicitamente la necessità di mettere insieme l’esperienza sensoriale con l’analisi razionale, e questa è l’idea portante del mio libro sulla Terra. Perciò ho seguito le tracce di Humboldt, non soltanto andando fisicamente in Colombia, nei mari americani, e nelle catene montuose dell’Asia centrale, ma anche seguendo i suoi pensieri per elaborare altri viaggi.

Nei tuoi viaggi hai incontrato anche molti turisti e li hai divisi in tre categorie: il viaggiatore entusiasta, il naturalista assennato e il turista consumatore. Tutti fanno parte di un’industria del turismo che spesso può diventare una minaccia. Cosa consigli a chi vuole fuggire dalla categoria del turista consumatore?

Nel libro parlo molto di turismo, com’è inevitabile, perché questa è una delle più grandi industrie del pianeta, che oggi è legata anche alle questioni ecologiche, nel bene e nel male. Prima di tutto, non disprezzo il turismo di massa. Lo considero, tra le tante modalità di consumo, quella che offre le maggiori opportunità di conoscenza. Certamente, però, moltissimo turismo è organizzato in modo da neutralizzare questa opportunità: bisogna evitare i pacchetti tutto incluso, in cui si viene trattati come organismi estranei che vanno circondati da un cordone sanitario di abitudini e linguaggi familiari. Si può viaggiare partendo e organizzando spostamenti e attività sul luogo, o affidarsi a agenzie che incoraggiano un turismo più aperto all’esperienza di viaggio autentica, che implica il confronto con l’alterità, con la disabitudine, con l’incertezza, con altre vite: un’esperienza intensamente corporea e spesso non riposante, che è capace di lasciare in noi dei segni.

Uno dei messaggi del libro è quello di mettersi in contatto e in ascolto dell’altro che può essere qualsiasi essere vivente del nostro pianeta. In qualche modo dimenticarsi del proprio io. Secondo le tue esperienze questo insegnamento può arrivarci dai polpi “casi clinici di dissociazione e stati alterati di coscienza”. Puoi spiegarci cosa ci insegna il polpo?

Un animale come il polpo ha un sistema nervoso e una struttura corporea diversissimi dai nostri. Di conseguenza, la sua mente deve essere molto diversa, e quasi certamente manca dell’unificazione che caratterizza i nostri stati mentali normali. Tuttavia, confrontarsi con animali diversi da noi, come il polpo, con la guida di filosofia e scienze, porta a rendersi conto che nel loro vissuto c’è qualcosa di nostro: la dissociazione, la presenza di pensieri opachi o inconsci, su un sottofondo di sentimenti e sensazioni, che spesso trascuriamo descrivendo la nostra vita come se fosse interamente guidata dall’io, da quell’assetto ordinario e organizzato in una storia che prova a introdurre coerenza e strategia nella vita. La vita però è molto di più, e rendersene conto può essere un’esperienza liberatoria e fondamentale anche per capire cosa stiamo sbagliando e cosa possiamo cambiare, in noi e nella società.

Tra le pagine dei tuoi racconti si scopre una parola molto bella: desmarañar. Cosa significa e perché ti ha colpito?

Significa districare, sbrogliare, risolvere, chiarire. Viene dalla maraña, la selva, quindi collega la risoluzione di nodi esistenziali e intellettuali all’orientamento nella foresta. È una delle parole che ho raccolto nei miei viaggi, che riguardano il rapporto tra la nostra esperienza e l’ambiente terrestre. Dedico attenzione a questa ricerca linguistica sulle parole che si usano per esaminare i problemi che affronto nel libro, perché questo ci rende consapevoli di come nei diversi linguaggi si depositino riflessioni antiche, che abbiamo bisogno di ripercorrere.

A Roma dedichi una parte del saggio, la descrivi come una città: “nata da un patto con quella natura circostante che più volte è tornata a ricoprirne strade e monumenti”. Qual è il tuo rapporto con Roma?

È la città in cui sono nato e vivo. Sono figlio di immigrati, e non ho mai condiviso una orgogliosa appartenenza a Roma. Eppure sento che è un ottimo punto di partenza per osservare il mondo, per andare e tornare: è vicina al mondo culturale a cui appartengo – alla filosofia, alla letteratura, alle arti, alla scienza, tutte tradizioni che conosco in prima istanza nella loro matrice mediterranea e europea, poi “occidentale” – ma anche lontana da città in cui è più facile dimenticare che gran parte del mondo non guarda più a occidente. È una città in crisi permanente, ma anche abituata alla crisi, al suo continuo attraversamento, alla trasformazione: in questo senso mi ci sento a casa.

Una tappa dei tuoi viaggi è stata la Nigeria che hai definito come uno: “stato di natura senza natura”. Puoi spiegare questa definizione?

È più una battuta che una definizione: pensando a quanto lo Stato nigeriano offra poco ai suoi cittadini (in termini di servizi e tutele), mi riferisco allo stato di disordine che precede la fondazione dello Stato civile nella teoria giusnaturalistica, in cui ognuno cerca di cavarsela da sé. Nello stesso tempo, quello “stato di natura”, che Rousseau associava a uno scenario di natura selvaggia e rigogliosa, in Nigeria corrisponderebbe a una quasi totale distruzione della foresta e a un inquinamento spaventoso. In tutto questo vedo una prospettiva che ci riguarda, e ammiro del resto il modo in cui moltissimi cittadini nigeriani – come racconto nel libro – reagiscono a questa condizione.

Da poco sono trascorsi trent’anni dal genocidio del Ruanda. Nel libro parli anche di questo paese e della toccante visita al Genocide Memorial di Kigali, parli di questa esperienza come di un’importante lezione sulle derive della politica dell’identità. La strada verso un’ecologia integrale potrebbe salvare l’umanità da ulteriori massacri?

C’è più di un nesso tra consapevolezza ecologica e riduzione della violenza. Conoscere e riconoscere altre specie di viventi, formare con esse dei rapporti, è una via per prendere atto del dolore e della distruzione portati dalla nostra civiltà. Nello stesso tempo, meditare su come animali come i gorilla sono stati capaci di modificare la propria relazione con i gruppi umani è segno di una potenzialità di passare dalla guerra alla pace, che in Ruanda ha riguardato esemplarmente anche gli umani. Possiamo imparare molto dagli altri esseri viventi, animali e anche piante, per riconsiderare la tendenza umana alla violenza, che va dalla litigiosità al massacro, e rivalutare invece una capacità oggi ostacolata e minacciata, quella di dialogare.

 

A cura di Elena Cirioni


In copertina: Nel vivo sasso dimora il cielo by Alessandro Giampaoli


 

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