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Canti Elettrici: uno spazio per (s)nobilitarci e affidare le nostre radici all’altrove

«Abituati a credere nell’immagine, in un’idea assoluta di valore, il mondo ha dimenticato l’imperativo della Sostanza: non ti farai scultura né alcuna immagine, benché tu sappia che il compito consiste nel riempire la pagina vuota. Dal profondo del tuo cuore prega di essere liberato dall’immagine. L’immagine è una prigione dell’anima: la tua eredità, la tua educazione, i tuoi vizi e aspirazioni, le tue qualità, il tuo universo psicologico».
(D. Jarman, Blue)

 

Un estratto da Canto VI: Canto per non essere più l’essere

Perché, padre, mi hai fatto figlio
e mi hai messo l’anello
per mietitura
e pascolo delle semenze?

Staccami il segno e la groma
e la forca delle semenze
e la campana delle adunanze,

dividimi dai fratelli e disperdimi
rimettimi nella culla,
e prima ancora,
nella morula e nel genoma
sbozzato
a spora e briofite,

dividimi e spezzami in grani,
che il germe scampi alla goccia
in segno di pietra o graffio,

ributtami nella vasca insieme
alle figlie
e sbucciami pasta
di scorza e corteccia,

fammela in resina o clorofilla
o spella osso a gineceo,

ma non farmi pescatore
e non darmi mani e braccia
né le ciglia
di setaccio per lo sguardo


Canti Elettrici è il canto VI del ciclo delle Arche, lo spazio-Arca VI, che dispone l’installazione Fragili soglie di Francesca Romana Cicia.
Arca è un progetto ideato tra fine 2022 e inizio 2023 da Danilo Paris, Giampaolo Parrilla e Matteo Gobbo, come macchina di incubazione per nascite possibili e dispositivo nomade di accoglienza e curatela degli immaginari in esilio, un “presepe di corpi fragili”.
Il progetto ARCA punta ad attirare l’attenzione su tematiche distanti, iper-oggetti, come scrive Thimothy Morton, e allo stesso tempo a riqualificare o forse squalificare, rendere stranieri, alcuni luoghi storicamente importanti, ma marginalizzati.
Una tecnologia dello spossessamento del nostro sé dalla nostra specie, per sdebitarci, per s-nobilitarci e affidare le nostre radici all’altrove. Più che un’epica del presente sepolto e del locale da cui poi si diramano i passati, i futuri e gli assenti, è un trasloco dell’epicentro poetico.

ARCA è una mostra organica, in divenire, che trattiene la memoria degli avvenimenti in essa occorsi come tracce.
Si sviluppa in corrispondenza al “ciclo delle arche”, poema in nove canti di Danilo Paris, secondo ciclo della raccolta “Filogrammi della segnatura”, ogni canto dei quali si configura come relazione endosimbiotica con le opere artistiche e gli spazi in cui hanno luogo: spazi di cura site-specific per fantasmi site-specific. Attraverso uno sprofondamento nella storia di esodi, sfollamenti, confini insanguinati e identità negate degli ultimi due anni, si racconta la storia dei Mhyr, latenze di nascite che sfuggirono alla vita, consegnandosi ad una dimensione liminare e possibile, una generazione futura che inventa una genesi rovesciata, una visione dell’origine che precede la sua venuta, in un’ottica di figura- profezia/adempimento retroattivo, in cui la luce viene ritrovata solamente attraverso una genesi retroattiva, che dai figli si riflette all’indietro verso i precedenti.

La lettura del sesto canto del poema Filogrammi della segnatura di Danilo Paris in interferenza endosimbiotica con un coro di voci eterogenee: i giovani Henry Fiorini, Luciano Valle, Antonella Pischedda, l’artista audio-visuale Germana De Vincenzi e il contributo di tre note poetesse, il testo Ofelia di Irene Sabetta, autrice con Convivio editore del recente Errore Cronologico; l’audio sonoro di Elisa Longo, creatrice del podcast Vocale e la favola antica e intimista La vipera di Giulia Bocchio, giornalista, direttrice della rivista Poetarum Silva e scrittrice (trai suoi libri La febbre dell’Io, per Il ponte vecchio).
Un coro di voci che fanno dell’Io un Ambiente rapsodico vivente, uno spazio in cui “divenire ambiente”.

Proprio in questo inframince, in questo limbo infra-sottile si collocano le Fragili Soglie, l’ambiente memoriale dell’opera di Francesca Romana Cicia, un serie di otto acetati dislocati nello spazio di una stanza nel centro storico di Ferentino, cittadina ciociara, luogo marginalizzato, quasi desertico, luogo di rovine e di memorie stratificate.
Se consideriamo tale spazio come sede di un’assenza, se non proprio di una sparizione, l’opera di Francesca Romana Cicia sembra cristallizzare strati di vissuto che si sovrappongono in quell’eterno “blu che trascende i limiti dell’umana esperienza”. (Derek Jarman, Blue).

Un “notes magico” ambientale, come quello descritto da Freud, una tavoletta di resina o di cera di colore marrone scuro bordato di carta, sulla quale poggia un foglio sottile e trasparente fissato saldamente al bordo superiore della tavoletta incerata. Le annotazioni che su tale strumento, che Freud paragona al nostro apparato memoriale, si incidono, possono sempre essere cancellate, per riscriverne di nuove, ma esso ne conserva permanentemente la traccia nello strato di cera. “I luoghi sono usati come cera” scrive Giuliana Bruno “essi serbano strati di una scrittura che è possibile cancellare e scrivere e riscrivere più e più volte[..], sono la sede di un palinsesto mnemonico”.
Come nel notes freudiano, il notes di fragili soglie marine di Cicia è una fissazione del mutevole, il luogo in cui le transizioni permangono come stati cristallizzati, con la differenza che in quest’ultime tali potenze costanti in via di nascere sono tracciate dal cammino dei suoi visitatori.

Come le stanze della memoria, che dalla Retorica di Quintiliano giungono fino ai teatri della memoria di Giordano Bruno, nella stanza stratifica di Cicia la memoria è dispiegata spazialmente, come nei giardini di Vauxandall, che incarnavano le vedute girovaghe di corpi deambulanti in uno spazio visitabile, una messa in scena del teatro della memoria, in cui i visitatori erano essi stessi agenti di animazione di vedute latenti.

Camminando nelle soglie dell’artista, apprendiamo come “lo spazio non si pone davanti a noi, ma circonda il corpo: è un effetto della motitilità propria del corpo vissuto”.

Se da una parte lo spazio dell’assenza che definisce la cittadina sede della mostra è un luogo in cui la memoria diventa frammentaria, perché “la memoria-immagine, è affettiva per natura, è frutto di sensi ed emotivamente carica” , da un’altra lo spazio che accoglie l’ambiente installativo si presenta come un palinsesto che stratifica la memoria più antica del paese, il passato recente della sede del PCI e il presente dei laboratori teatrali che in tale spazio occorrono: “fa corrispondere le falde del passato con gli strati di realtà, dato che le une emanano da un dentro sempre già là, le altre risultano da un fuori sempre futuro e entrambe erodono il presente che ormai è soltanto il loro incontro”.

Se la memoria-immagine viene concepita spazialmente, cioè come uno spazio attraversabile, e non temporalmente, è perché essa è il luogo dove si imprimono i contenuti dell’esperienza e dunque, riattivarla implica rimettersi in cammino nei luoghi dell’esperienza, attraverso l’immaginazione e le emozioni che sono indissociabili dai processi fisiologici, avendo la memoria un rapporto influente nei riguardi degli organi corporei e degli aspetti somatici, che si innescano secondo meccanismi senso-motori.

In questo spazio il Canto VI, Canto per non essere più l’essere, si incide nello spazio di Francesca Romana Cicia, attraverso una disseminazione di rapsodie di altre voci, che interferendo, sembrano costituire quella massa compresente di voci molteplici, dall’altrove, dall’adesso o dal futuro.

La voce, che fluttua nel blu, è la presenza stessa, tanto che si può pensare ad un divenire-voce e questo divenire è possibile proprio nel modo in cui la voce si fa tangibile nell’essere vista nello spazio blu delle emersioni, in questa sensualità aptica che concede di toccare il visto e quindi di toccare la voce stessa, come ne l’Incredulità di San Tommaso di Caravaggio, seguendo quello che dice Merleau-Ponty , è l’invisibile che si ripiega continuamente nel visibile, e il tocco è proprio il desiderio che è implicato dalla possibilità di toccare, cioè di non toccare.

Fragili soglie, mappa di una città sconosciuta, mappa di un inconscio architettonico, mappa dei residui dimenticati dell’io diviso lacaniano, l’Io che emergerebbe nello stadio dello specchio attraverso l’edificazione architettonica di una chiusura fortificata per proteggersi contro una divisione tra interno e esterno. Lo spazio profondo e illocalizzabile della città in bottiglia è un luogo segreto non mappabile, “il colore della televisione sintonizzata su un canale morto” di Gibson o anche il suo “cielo sopra Burbank, [..] completamento vacuo, come uno schizzo di vernice blu presentato all’imprenditore dell’universo”.

Un cristallo blu che si rifarebbe architettonicamente ad un’indiscernibilità tra il suo sotto-passato e il suo sopra venuto alla luce. La mappa di un territorio come questo, “sospesa tra un abisso di significati nascosti ed un cicaleccio di segni”, sarebbe quella che Vidler chiama “trasparenza sepolta”, un’architettura delle superfici da cui traspaiono rifrangendosi in uno specchio polveroso, le regole strutturali di un’esistenza sotterranea, in cui ciò che si attualizza nella casa in un momento è virtuale secondo l’esistenza proiettata contemporaneamente nello specchio.

Seguendo l’etimologia francese di fils, che significa sia figli che fili, i mhyr, i figli senza nascita del poema dell’Arca, risalgono o discendono il filogramma di una memoria frammentata dispiegata in quella speleologia del limite che sono le fragili soglie di Cicia: bisogna per così dire scendere nel Bereshit, nel limo dell’origine, in cui in un processo interminabile (Samskara) i figli giungono disponendo una nuova possibilità di vedere.
È la pancia dell’arca-balena, l’adamah originario in cui cade il Ruach dello spirito, uno spirito elettrico, il seme poetico dei mhyr.

 

“Qui lo spazio è tutto, perché il tempo non anima più la memoria. La
memoria – è strano! – non registra la durata concreta, la durata nel senso
bergsoniano. Non è possibile rivivere le durate abolite, si può solo pensarle,
pensarle sulla linea di un tempo astratto privo di ogni spessore. Attraverso
lo spazio, nello spazio, rinveniamo i bei fossili della durata, concretizzati da
lunghi soggiorni. L’inconscio soggiorna, i ricordi sono immobili, tanto più
solidi quanto più e meglio vengono spazializzati. Localizzare un ricordo nel
tempo è una preoccupazione da biografo, corrispondente soltanto ad una
sorta di storia esterna, una storia per uso esterna, da comunicare agli altri.
Tesa più della biografia all’approfondimento, l’ermeneutica deve
determinare i centri del destino sbarazzando la storia del suo tessuto
temporale congiuntivo senza azione sul nostro destino. Per la conoscenza
dell’intimità, più urgente della determinazione delle date è la localizzazione
spaziale della nostra intimità. Qui lo spazio è tutto, perché il tempo non
anima più la memoria”.

La poetica dello Spazio, Gaston Bachelard


RAPSODIE INTERCELLULARI: estratti in anteprima

 

 

La vipera

di Giulia Bocchio

Le certezze sono un morso di vipera.
Andavo a cercarle in qualche sentiero di montagna. Ne ricordo uno in discesa, di terra e pietra, portava a un’antica fontana che vomitava acqua densa dal profondo delle viscere del suolo. La vasca era fredda, inconfondibile il suo scrosciare sacrale, per sfida o profezia ci immergevo una mano dentro fino a quando non sentivo la morsa di una coscienza che sfuma in un brivido freddo. È questo che fa un morso? È questo l’effetto di un veleno che uccide lentamente?
Volevo chiedere qualcosa al sangue, al mio corpo: modularne una versione impassibile, ovvero impossibile del senso delle cose, che sembravano essere annegate sul fondo della vasca, che aveva a sua volta la forma di un’alta cassa, come una tomba reale e medievale. E forse la era, una tomba. Nella mia mente, con l’arto che perdeva sensibilità e colore, sfilavano immagini di esseri umani in fuga. Vedevo Margherita la Pazza correre verso la bocca del gigante, così come l’aveva pensata un uomo, Bruegel. Ogni strega l’ha pensata un uomo. Ma pazza non era, pazza era l’dea di circoscriverla al folklore di una sola leggenda, perché anche il ricordo è un processo alchemico. E allora eccone un altro. Da quelle parti abitava una donna, beveva da una vita in quella fontana ed era comunque invecchiata peggio di tutto il resto lì intorno, che sembrava immutabile, animato da qualcosa in grado di trascendere il tempo e la decomposizione.

 

 

Lear
(o niente di niente)

Di Irene Sabetta

La ragazza andava a letto presto la sera. Le piaceva sognare.

Suo padre restava ancora un po’ accanto al fuoco, cercando di leggere i segni che la fiamma scriveva nell’aria e l’aria cancellava.

Vivevano in quella casa da sempre e da sempre vivevano felici.

Da sempre lei andava a letto presto e lui un po’ più tardi. Non si raccontavano mai i loro sogni ma spesso si guardavano negli occhi.

La ragazza aveva grandi occhi verdi; quelli di suo padre erano piccoli e grigi.

Passavano ore accanto al fuoco senza parlare, ma i loro sguardi si incrociavano e lei si perdeva nel grigio e lui nel verde, e lei vedeva con i suoi occhi e lui con quelli di lei.

Vivevano così, senza parole.

Ogni giorno, alla stessa ora, la ragazza andava nello stesso posto e sperava la stessa cosa, sperava che suo padre non la lasciasse mai.

Il loro era un amore immobile, come il sole che pure sorge e tramonta, come il fondo del mare, immobile come nient’altro. Passavano gli anni ed era sempre lo stesso amore.

Ma suo padre, lui non era più lo stesso. I capelli si erano fatti bianchi e le mani rugose, il viso stanco e la schiena piegata. Respirava a fatica.

La ragazza si sforzava, cercava di capire il tempo ma, alla fine, quello che vedeva con chiarezza era solo lo sguardo spento di suo padre e le sue mani senza forze, adagiate sui braccioli della
sedia.

Non riusciva neanche a baciarle quelle mani tanto bianche e fredde. Le toccava, ma non le riconosceva per quanto erano lisce. Suo padre si stava consumando e con lui, lei.

La ragazza andava allo stagno e lo interrogava, lanciava un sasso nell’acqua e i cerchi che questa tracciava erano gli anni che suo padre avrebbe ancora vissuto e lei, felice con lui.

Lo stagno la ingannava. Lei lo sapeva ma continuava ad interrogarlo.

Una mattina, dopo una notte senza sogni, si svegliò e corse allo stagno. Gettò un sasso, l’acqua rimase immobile, sentì la voce di suo padre ed il suo nome gridato nell’aria nebbiosa.

La sua vita era attaccata a quella di lui come un fiore allo stelo.

 


In copertina: Foto di Mila Jonis dell’installazione ambientale Fragili soglie di Francesca Romana Cicia, dalla mostra Limen.


 

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