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Just dropped in – Intervista ad Angelo Biasella x Neo Edizioni (a cura di Giulia Bocchio)

“Letture che promettono derive al posto di ormeggi tranquilli”: sì ne abbiamo bisogno, e potrebbe riassumersi in questa frase la ricerca che porta avanti la casa editrice Neo Edizioni,  nata nel 2008, con sede a Castel di Sangro (AQ) e oggi protagonista di Just dropped in.
Dalla Teoria del Neo, alla smodata autofiction che non salverà niente e nessuno, passando per la potenza evocativa di un racconto in grado di risucchiare come un buco nero l’attenzione di chi legge, perché il lettore è parte integrante del processo, protagonista a sua volta di una storia di cui non è solo spettatore, ma materia anatomica cucita  alla pagina. Angelo Biasella, direttore editoriale e fondatore del progetto insieme a Francesco Coscioni, ci racconta la trasversalità del neo, l’ambivalenza dell’interpretazione e l’importanza dell’onestà d’intenti quando si scrive.

 

 


Partiamo dalla Teoria del Neo, c’è un passaggio che mi ha molto colpito: «Il lettore non è un consumatore: è il contraddittorio vibrante alla pagina narrante. È il corpo entro cui gli elementi antitetici della significazione trovano la propria sintesi. Che gli scrittori lo sappiano, perché sono gli eletti alla rappresentanza». È interessante perché la scrittura prende vita nel momento in cui qualcuno ha scelto di essere lì, dall’altra parte della pagina, e… legge.

La lettura è una modalità attiva di impegnare il tempo, al pari dell’esercizio fisico. In entrambi i casi si mettono in moto muscoli attraverso degli impulsi elettici. Indubbiamente, Dante è stato un atleta paragonabile a Michael Jordan. Diversi contesti, diverse abilità, ma stessa maestria, e stessa eccellenza. Oltre a questo, l’atto di leggere è volontario e presuppone una certa dinamicità. L’esatto contrario della tv dove le informazioni arrivano nei centri d’apprendimento in modo passivo. Quasi subite. Nella lettura, invece, l’idea dello scrittore prende forma e si realizza completamente solo attraverso lo sguardo del lettore. Grazie al suo filtro, al setaccio, alle sue capacità di interpretazione. C’è un accordo alla base, un patto. E il lettore non è uno spettatore indolente né un comprimario; il lettore è l’attore protagonista. Ha pari dignità e stesse capacità significative dello scrittore, nonostante l’opera non sia scaturita direttamente dal suo intelletto.

Spesso penso che la letteratura, al di là di una storia e oltre i confini labili di una trama, sia soprattutto visione, creazione di immagini dalle quali può scaturire un incubo o un universo parallelo. Purché sia possibile perdersi e poi, forse, ritrovarsi cambiati…

Nel panorama italiano contemporaneo è raro imbattersi nei creatori di mondi. Sempre più, la letteratura nostrana si sta assottigliando sulla via di una narrazione del quotidiano che ripudia ogni slancio creativo. Sono lontani i tempi di Tommaso Landolfi e il suo Cancroregina. Eppure in quest’orda di autofiction smodata in cui gli autori si autocelebrano usando una lingua facilmente gestibile dal maggior numero di lettori possibile si vedono, ogni tanto, concretarsi piccole perle. Le vedi affannarsi per emergere tra le pieghe degli sterminati cataloghi generalisti delle major, oppure issarsi fiere tra le poche uscite dei marchi indipendenti. Letture che promettono derive al posto di ormeggi tranquilli. Autori che spingono a mettere in dubbio il proprio punto di vista, abbandonare le convinzioni pregresse. Non è così che si impara qualcosa? Il processo di crescita è sempre traumatico. Implica una sfida, la volontà di lasciarsi le certezze alle spalle e salpare verso l’ignoto. Ci sono queste eccezioni e dimostrano, grazie al cielo, che forse non tutto è perduto.

Chi scrive tende ad avere un rapporto simbiotico con la propria opera, come se questa fosse un organo in più, un apparato vitale, una mutazione di cui andar fieri ma, come disse qualcuno*, «Non si scrive per fare bella figura». Qual è, per voi, la differenza fra lo pubblichiamo e facciamo più bella figura a non pubblicarlo?

Bella domanda. Non pubblichiamo sicuramente chi scrive per autocompiacimento. Per quel genere di perversione ‒ la vanity press ‒ ci sono già stuoli di editori a pagamento pronti a spellarti. I nostri autori, però, non devono neanche volutamente scrivere per “sembrare cattivi”. Quello che assolutamente non devono fare è censurarsi o mitigare i propri istinti. Siamo totalmente asserviti a un tipo di sincerità inalterata. Se di abissi deve trattarsi, che siano abissi spaventosi, aberranti, puri e incorrotti nella loro oscenità. Abbiamo fiuto per riconoscere l’anima di chi scrive e capiamo al volo se l’opera che ci propone è vera o adulterata. Quindi, uno dei requisiti necessari per la pubblicazione nel nostro catalogo è l’onestà di intenti. Poco importa se poi, molto spesso, ci innamoriamo degli alienati.

Veniamo al Premio nazionale di narrativa Neo Edizioni 2024 – Anno Zero. Spoiler, non sono ammesse al concorso le opere marcatamente di genere. Qualcuno irrimediabilmente verrà tagliato fuori, altri tireranno un sospiro di sollievo. Non sarà un genere a etichettare una storia. La sfida vera, oggi, credo sia l’essere riconoscibili… Quanto, un premio come questo, aiuta la redazione a fare scouting?

Non siamo ferrati in materia di letteratura di genere ma siamo molto avvezzi alle contaminazioni. Del resto, il nome della casa editrice (Neo) si riferisce al nevo cutaneo e alla sua ambivalenza; al fatto che il neo può essere un simbolo di bellezza o il sintomo di un tumore in nuce. Quindi il concorso è aperto a tutte le opere che abbiano delle caratteristiche trasversali. Ci piace scoprirci sorpresi durante la lettura di un manoscritto. Quando gli autori ci portano in territori inesplorati ‒ e sanno farlo con una voce appropriata ‒ è lì che scatta la fascinazione. C’è bisogno di uno stupore perché questo accada, uno scarto che rovesci, almeno leggermente, tutto l’apparato di conoscenze che credevamo d’aver introiettato. Gli autori che pubblichiamo devono insegnarci qualcosa di nuovo. Se non aggiungono niente al nostro bagaglio culturale (e se non proviamo un’empatia smisurata), non ci imbarchiamo nel progetto editoriale. Per la natura del sentimento che auspichiamo e gli oneri che un tale rapporto comporta è molto difficile trovare un autore con cui convolare a nozze. Il premio, che interra paletti entro cui muoversi, speriamo ci aiuti a restringere il campo d’azione. E non è detto che pubblicheremo solo il vincitore. Nessuno ci vieta
di proporre un contratto anche agli autori che riterremo meritevoli di pubblicazione.

Ne L’impronta dell’editore Roberto Calasso scriveva che un libro unico è quello all’interno del quale si riconosce subito che allo scrittore è accaduto qualcosa perché quel qualcosa, pur nella sua disagevolezza, si deposita nella stesura, come la testimonianza di un attraversamento. I vostri autori e le vostre autrici sono accumunati da questo aspetto?

Non siamo troppo sofisticati in redazione. Per dire, alla delicatezza di Carver preferiamo il nerbo di autori più “vigorosi”. In questo senso, crediamo che un accadimento, per essere narrato (per entrare nel nocciolo di una rappresentazione letteraria), debba avere una sua potenza evocativa, un’importanza tale che gli dia il diritto di diventare sostanza da tramandare. Quindi non ci interessano più di tanto le vicende quotidiane, se prese nella propria endemica transitorietà. Ci interessano qualora, nel quotidiano, ci sia qualcosa che improvvisamente deflagra e, in modo più o meno impetuoso, porta i personaggi a ritrovarsi cambiati, stranieri a sé stessi. È l’alterazione, in ogni sua forma, che ci affascina molto.

Just dropped in
Intervista a cura di Giulia Bocchio


* Quel qualcuno è Palahniuk

In copertina: Angelo Biasella


 

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