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L’acqua al cervello è una foglia: la poesia di Alfonso Guida indaga tutto (di Annachiara Atzei)

 

Dall’assenza fino alla gioia. La poesia di Alfonso Guida indaga tutto: l’abbattimento dei giorni, i rimpianti, le pietre, le nuvole, la minestra buona. In L’acqua al cervello è una foglia (Edizioni dello Straniero, 2023) – silloge che viene riproposta dopo quasi un decennio dalla sua prima pubblicazione – l’autore sperimenta ancora una volta la sua capacità di trarre linfa dal proprio vissuto e mutare i luoghi a lui cari in fulgida proiezione.
La Lucania – suo eremo – diventa spazio sacro. E il sacro suscita, per definizione, sentimenti di devozione e dubbio, di venerazione e di rigetto, per quella contestuale pretesa di trascendenza e immanenza. Qui, Torremozza, la spiaggia verso la quale il paese degrada, col fragore dell’acqua e il cordame, è un angolo di universo mitico cui attingere. Guida sceglie quel luogo, lo elegge sia a sfondo della narrazione sia ad atteggiamento del pensiero e lo trasforma in una realtà in cui i morti e i demoni convivono con le persone, fanno loro compagnia o danno un segnale di angosciosa vicinanza. È così che l’eterno si fa sasso e la quaglia sul tronco non è altro che quanto
resta dei cieli.
Tutto, intorno, parla e si anima con rumore di vento. Le cose materiali diventano melodia e ritratto, eco di un senso indagato a fondo. Proprio per questo, traspare un sentimento ambivalente di attaccamento e distacco dagli spazi e dagli oggetti, che non è mai indifferenza, ma quasi dolore per non riuscire ad amare del tutto le sue stesse radici. Come Pavese, che nei suoi testi fa della terra corpo umano, anche Guida soffia la vita dentro le cose, le anima, le svela nel loro più inarrivabile significato. Per farlo, si concede il tempo di riflessione necessario a trovare la parola precisa, le figure che siano la giusta chiave del ricordo: le garzette chiare, il tovagliolo aperto e le scodelle di minestra in mezzo al prato, il giardino sfollato dei crochi, la sedia di paglia col fil di ferro ai piedi, le cicorie nell’orto, i castagni, un ramo di quercia. Tutto quanto è qui descritto e raccontato diventa il perno intorno al quale ruota il suo vagare e punto di fuga da cui allontanarsi o verso il quale rivolgere nuovamente lo sguardo.
“La poesia è tanto legata al ritorno” – scrive Milo De Angelis nel breve saggio che chiude la raccolta della sua intera opera pubblicata per Mondadori – “i luoghi che abbiamo amato ci parlano, si rivolgono a noi, solo a noi, fanno cenni. I luoghi sono vivi, sono creature, hanno una
voce”.
Quale voce risuona nelle poesie di Guida? Di certo, una voce originaria e nuda, quella che deriva dalla travagliata esperienza personale, dalla formazione letteraria e da un io visionario. A questa, si aggiunge quella di una natura autentica, mai stereotipata, e di un paesaggio insediativo che fa del consueto la sua straordinarietà. Ogni immagine produce un suono ed evoca momenti ed episodi talvolta molto lontani: “Tu mi scrivi nell’orecchio e con l’orecchio io Ti leggo”, scriveva in una lettera Marina Cvetaeva a Rainer Maria Rilke nel 1926: nei componimenti presenti in questo libro l’impressione è la stessa, cioè che a udirsi sia un canto nitido e puro. Ciò che ne riverbera – la memoria – si mostra come materia solida che continuamente si plasma attraverso la scrittura in un susseguirsi di versi densi e intimi che sono il dentro e il fuori del poeta, identità richiamata a sé e attraversata, traccia concreta di come abbia scelto di stare al mondo. Se è vero che per capire chi siamo dobbiamo ritornare – come scrive ancora De Angelis – Alfonso Guida lo fa col passo sicuro di chi è già stato là, come se non si fosse mai staccato dal suo inizio, anzi, come se questo avesse ripreso a bruciare dentro di lui. E il fuoco – si sa – quanto più attira verso il suo calore, tanto più può far male.

 

Di Annachiara Atzei


Cinque poesie da L’acqua al cervello è una foglia (Edizioni dello Straniero, 2023)

 

Ci siamo quietati in un tempo chiusi
per non dire addio né affogare l’acqua
tra due pasture. E l’Angelo commuove.
Perché è il segno di luce che rapisce
le mani o il cieco assottigliarsi ansioso
di una mente col pensiero spezzato.
Sorge l’età de labirinto muto
Dove anch’io sarò presto alto o smarrito.
Lungo è il paradiso che quaggiù affiora
se un precipizio calmo urta la soglia.
*

Come puoi a sangue inascoltato dirci
se il giardino sfollato dei crochi abbia
teso il ghiaccio e l’oscuro accrescimento
del dolore. C’è tra le ossa un groviglio
di sterpi. Un po’ di febbre annuncia i giorni
da passare come dietro a una porta
senza aver panno d’aceto alle labbra
che pur lascia in te ombra e fatica e rianima
la gioia, che a sé nasconde se stessa.
*

Stelle irsute sui loggiati fioriscono.
Salvia e ruta. Siedo sempre oltre il cespo
del rosmarino fermo
come una statua al crocevia salmastro
dell’eterno, che cade a precipizio
prima di farsi tempo.
Stasera una cincia si
spulcia le ali sotto un ramo di quercia.
*

Ricorda, il disamore tiene forte,
luce di sangue, le nostre appartate
menzogne. La berretta frigia. Il suono
del colore scende sui rami spersi
del cortile. Abbiamo spento la luce
mentre la cucina dorme nel facile
contrasto delle tenebre. Altre foglie,
frusciando, scompongono l’ombra e il dubbio
che ci siano altre ombre dietro il rimpianto.
L’abete corre nei tuoi occhi. E lo sguardo
che ferisce non è sguardo né inverno.
*

Più onesto e quieto è il paese
quando degrada verso
Torremozza. Le urla di certe donne
malate nella mente toccano la
curva di campo. Qui ulivi e castagni
muoiono, arsi dal veleno di un verme
che a tratti raggiunge le tempie, le mie
tempie e le tempie di quelle donne ispide,
voraci, miserande. E sbrana il cielo
quel po’ di cielo che ancora apre
le stelle e il fragore delle acque, a notte.

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