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Garcia – Un racconto di Omar Suboh

Il fumo denso usciva dalla torre grigio-argentea della fabbrica dismessa, immersa in un paesaggio devastato, come alla fine di una guerra termonucleare. Si potevano scorgere le rovine di un mondo sommerso, nascoste dall’acqua di una pozzanghera dal colore verdastro, generato dai residui dell’inquinamento industriale protrattosi per secoli. 

Mi fermai attonito. Scorsi il cielo plumbeo cambiare sfumature al mio passaggio, mentre calpestavo reti e filo spinato depositati tra gli strati di terreno. Esalavo l’aria dai miei polmoni alle stelle, sotto il riflesso della luce delle costellazioni vicino all’arco diroccato di quello stabile fatiscente. I raggi che emanavano si infrangevano sui pilastri logori che sorreggevano quelle colonne, risalenti a un tempo in cui il sacro era stato superato. Erano collocate al centro del mio spettro visivo, che si espandeva come la coscienza tra i fari della mente di una divinità imperscrutabile, che orientava i miei passi claudicanti tra la nebbia e i rifiuti delle discariche. 

Una mano livida, con le dite imploranti incorniciate da unghie luride, affiorava dal velo dell’oscurità che dominava incontrastata tra due macchine scassate, utilizzate un tempo per la produzione di materiali di scarto, vicino alla pozzanghera dove avevo infilato il piede destro accidentalmente, distruggendo in questo modo quella città sotterranea affondata che avevo potuto ammirare poco prima.
Una voce flebile, sospesa tra una dimensione e l’altra, sembrava mi chiamasse per esortarmi a seguirla. 

Il suono di un serpente, un sibilo che a intermittenza contorceva le mie viscere, espellendole dal ventre contratto, calò dall’alto come un fulmine, inondando di pioggia verde tutto il terreno in cui sentivo di sprofondare, come se stessi camminando tra le sabbie mobili di un deserto egiziano.
In un attimo, al posto del paesaggio industriale mi si spalancarono davanti distese di maestose dune, mentre un cammello si avvicinava con passo leggero guidato da una trista figura, i cui lineamenti erano deformati, allungati, come una tavolozza di colori putrescenti. Nella mano sinistra stringeva un bastone con sopra una testa: – È di Garcia! è di Garcia! – disse, rivolgendo i bulbi oculari all’interno della sua mente e scorgendovi Shiva inondato di schegge multicolori che provenivano da tutti i lati e da ogni luogo e spazio possibile. Non replicai e, come un riflesso condizionato, seguii il beduino magico che con il suo bastone indicava una direzione indefinita. 

In quel preciso momento gli occhi della testa infilzata si rianimarono, come un faro nella notte di tenebre di un mare solcato da navi senza porto, rifrangendosi come un prisma frazionato rischiara i frammenti della realtà. Innumerevoli frattali, rette infinite e triangoli con l’occhio brillante rischiaravano l’abisso che mi si schiudeva, inghiottendomi dentro la sua voragine, e risputandomi fuori come l’osso rosicchiato da un cane. 

Vedevo distintamente i miei pensieri prendere forma, dotarsi di scheletro e muscoli, cuore e fegato, stomaco e bile, polmoni più cervello. E poi vedevo una Idea, radiosa, al centro della mia mente, estesa come i fenomeni della materia. La sua proboscide spettrale inanellava modelli della realtà da un iperuranio metafisico per spargerle, come il suo seme, sulla Terra che calpestavo: io, testa senza corpo, pensiero fattosi carne, spirito che contempla sé stesso. Piramidi sepolte riaffioravano, come fanno dopo un terremoto le nude radici degli alberi sradicati. L’unico cordone ombelicale che mi legava al mondo era la mia rappresentazione di esso. Uno specchio deformato in cui vi si riflettevano le cattedrali, basiliche, castelli e industrie di tutti i tempi, di tutti i luoghi, dissolvendone le immagini come una eco fa con la voce di un monaco che, privato del cibo per mesi, dischiude nella visione delle visioni l’eternità, giunto alla conclusione del suo percorso iniziatico. 

Sulla punta di quel triangolo monumentale era appoggiato un uccello dalle ampie ali translucide, cosparse di occhi disseminati sul manto violaceo. Una musica eterea uscì dal suo becco appena mi vide. Le note di una musica delle sfere, nata per congiunzione dell’asse nodale tra i due punti dell’orbita che si incontravano sul piano equatoriale, si sprigionò trascinandomi attraverso una spirale policroma in cui metodicamente, seguendo la scansione di un alfabeto vedico, le lettere incise sulla sabbia e sulla facciata di quella piramide mi si impressero indelebilmente nella retina, scansionata dai bagliori che si riflettevano come un’insegna al neon artificiale. Fluttuai, io, testa senza corpo, in un oceano di stelle trasportato da un carro zodiacale dalla lunghezza incalcolabile. Ero diventato un’altra persona.

 

Di Omar Suboh


In copertina: Senza riflesso, Giulia Bocchio + Midjourney


 

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