Esistono tra cinema e letteratura corrispondenze segrete, che vanno ben oltre la mera trasposizione di un romanzo sul grande schermo. ‘Dopo il cinema. Le domande di una regista’, pubblicato da e/o all’interno della “Collana di pensiero radicale”, ne è una vivida dimostrazione: in conversazione con Goffredo Fofi, Alice Rohrwacher riflette sul proprio percorso da regista, sulle difficoltà di fare cinema oggi, ma soprattutto chiama a raccolta le scrittrici che da sempre nutrono il suo immaginario. Su tutte, Anna Maria Ortese: «Il suo libro, Corpo celeste, ha ispirato il mio primo film, che porta il suo nome. Non tanto per un riferimento diretto al libro (si tratta di una raccolta di saggi), ma per lo spirito con cui la Ortese si appresta a compilare la scrittura: lo spirito di chi si rende conto di vivere in un corpo celeste, e che non bisogna andare tanto lontano nei silenzi siderali per scoprire l’altro e la meraviglia».
Presentato al Festival di Cannes nel 2011, Corpo celeste racconta la storia di Marta, tredicenne che si avvicina al cattolicesimo e sceglie di ricevere la cresima; gli adulti intorno a lei considerano questo rituale una tappa obbligata, un necessario allineamento alle consuetudini, più che un’occasione di crescita spirituale. Le figure che dovrebbero istruire Marta nel suo percorso di catechesi non la istruiscono affatto, e gli insegnamenti più autentici la protagonista dovrà scovarli altrove – nei racconti di un vecchio prete solitario, allontanato dalla comunità, ma anche negli animali abbandonati e uccisi, testimoni di una violenza tanto più efferata quanto più è facile compierla e ignorarla. Dell’ispirato saggio di Ortese, Alice Rohrwacher preserva il messaggio profondo, la convinzione che la sacralità risieda in tutte le cose del mondo, e non in una astratta dimensione ulteriore.
Ma la sensibilità di Ortese si riverbera anche nello sguardo di Rohrwacher dietro la macchina da presa: i suoi film sono infusi di una grande attenzione ai luoghi, tanto che i protagonisti appaiono spesso dei genius loci, baluardi di una mitologia perduta, custodi metà umani e metà spiriti, chiamati a vigilare su quel corpo celeste da troppo tempo dileggiato. Basti pensare a Lazzaro felice, in cui il personaggio principale è un contadino giovane ed efebico, avvolto da un’aura di inscalfibile mistero. «Possiamo anche metterci di fronte a un’opera, contemplarla, senza per forza esserne i protagonisti» dice ancora Rohrwacher. «Lazzaro è l’esempio massimo di un personaggio in cui nessuno può identificarsi, ma che tutti possono vedere, di cui tutti possono ricordarsi. È la forza dell’icona bidimensionale, è il santo, l’uomo fuori dal peccato originale. Si assiste alla sua storia, non si partecipa». La logica dell’intrattenimento ha ormai conquistato ogni campo d’azione, in cinema come in letteratura: la regola imperante è che lo spettatore o lettore debba potersi riconoscere in ciò guarda o legge, e, viceversa, è sempre più difficile per gli autori parlare d’altro che di sé stessi, inventando storie che esulino dall’esperienza diretta e quotidiana. Eppure, suggerisce Rohrwacher, rifuggire dall’identificazione può avere anche una funzione pedagogica. «Credo sia una postura necessaria nel lungo periodo: agisce sulla memoria e sullo sguardo profondo, può far sentire ai ragazzi che ci sono tanti modi di guardare le cose, che non bisogna a tutti i costi sentirsi protagonisti di una storia per viverla».
Se un racconto di Elsa Morante ha ispirato il cortometraggio Le pupille, candidato all’Oscar nel 2022, La Chimera, ultimo film di Rohrwacher, prende le mosse dagli scritti di Cristina Campo dedicati alla fiaba. Protagonista del film è l’archeologo e rabdomante Arthur, capace di scovare le vestigia etrusche tra i fitti boschi della Tuscia. Accompagnato da una banda di tombaroli scalcagnati, interessati solo a depredare gli antichi corredi funebri, Arthur non sembra mosso dall’avidità, quanto da una malinconia inguaribile: come un principe decaduto e infelice, ciò che cerca sottoterra non sono davvero i tesori etruschi, ma la sua amata Beniamina, scomparsa non sappiamo come, che ogni notte lo visita in sogno, chiamandolo da profondità sconosciute, tra profili di statue che non sono state scolpite per occhi umani.
Di fronte a un film del genere, insistere sulla trama ha senso fino a un certo punto: La chimera è, più di altri film di Rohrwacher, l’esempio di un cinema di immagini, o, come avrebbe detto Pasolini, di un cinema di poesia, e cioè sorretto unicamente dalla lingua, dallo stile della regista, dalla libertà con cui la macchina da presa accompagna il protagonista nel sottosuolo, rischiarato da una debole fiamma, alla strenua ricerca di quell’invisibile che per Campo era il motore immobile di ogni fiaba – «che altro esiste veramente in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?». Scandagliando il web, il commento che più spesso viene rivolto a La chimera è quello di un bel film, seppur «non del tutto riuscito»; viene da domandarsi perché mai oggi esigiamo film del tutto riusciti, sottomessi alla sceneggiatura e alla coerenza algoritmica del racconto, e se invece non sia proprio nell’ambiguità, nei punti irrisolti che si nascondano le scoperte più preziose. «Quante volte ci viene detto che una scena in fondo possiamo tagliarla?» dice ancora Rohrwacher, sottolineando i problemi che incontra in fase di produzione, quando ogni scelta viene passata al vaglio. «È un tema delicato e difficile: un film ha bisogno anche dell’inutile per esistere. Forse più che inutile potrei dire “non evidentemente utile”. Il film ha bisogno di segreti».
Dopo il cinema è un titolo post-apocalittico, lascia presagire che la settima arte si sia ormai estinta, e non resta che fare i conti con un immaginario in frantumi.
Eppure, nei pensieri di Rohrwacher troviamo la stessa ostinazione della natura che rifiorisce nei luoghi del disastro, la pervicacia delle arborescenze che si avviluppano alle macerie, splendendo di colori nuovi e impensati: «Vedi, provo a essere tragica e pessimista, ma poi vince sempre una maleducata possibilità di gioia».
Di Giulia Oglialoro
In copertina: Alice Rohrwacher fotografata da Brigitte Lacombe

