Afferrare un’ombra non si può. Per definizione. L’ombra fugge, non ha corpo, e più ci si adopera con luci e lucine per scoprire dove s’è cacciata, in quali angoli della Storia e della memoria collettiva, più l’ombra si buca, e scompare di nuovo. Bisogna abituarsi al buio, accontentarsi di inseguire, rassegnarsi anche a qualche fallimento, trarre dal fallimento quel che si può. Una storia, per esempio. Il principio di una forma. Chi sceglie di stare al gioco, sa a cosa va incontro.
Come Bruno, ne Il persecutore di Cortàzar, si mette alle calcagna di Johnny Carter – nome finzionale per l’inafferrabile Charlie Parker –, così Giagni sceglie di darsi all’inseguimento di Jim Thorpe, leggenda dello sport mondiale di inizio Novecento, campione olimpico dimenticato, nativo della nazione indiana Sac e Fox e stella in rovina. Ma lo fa con un’attitudine diversa, con la consapevolezza, cioè, di chi sa che afferrare (qui nel senso di comprendere) una vita come quella di Thorpe è forse missione impossibile, eppure degna di dedizione piena. Con la consapevolezza, di nuovo, di chi insegue un’ombra, un simbolo, ben sapendo che ogni simbolo muore proprio nel momento in cui diventa possibile spiegarlo.
«A distanza di tre quarti tre secolo, neanche i discendenti più orgogliosi, neanche i più maniacali biografi, sapevano chiaramente che Thorpe avesse giocato a basket dopo la scuola. Quella zona d’ombra aveva resistito. Il tempo illude, illude soltanto, che la conoscenza possa essere definitiva».
Giagni scrive un libro rizomatico, ma anche molto essenziale, ordinato. L’impressione che si ha, leggendolo, è che l’autore abbia passato così tanto tempo all’inseguimento di Thorpe, in una minuziosa ricerca delle fonti, dei luoghi di apparizione, delle testimonianze di chi prima di lui ha incrociato l’Ombra, da poter restituire alla sua storia una forma significativa con la sola forza del montaggio. Aiutandoci, cioè, a direzionare lo sguardo di volta in volta verso ciò che conta.
A ben guardare, la storia di Thorpe schizza da tutte le parti, è irrequieta, sembra non avere alcun senso. Tragedie personali, trionfi sportivi e improvvisi deragliamenti si alternano senza soluzione di continuità. È una vicenda che attraversa geograficamente gli Stati Uniti e non solo, che incrocia la Storia della Grande Depressione e della razzializzazione dei nativi e non solo. Sembra essere una matassa da cui sbucano infiniti bandoli, ma l’autore è bravo a riportarci sempre al cuore del rizoma, svelandolo, senza mai nominarlo (sarebbe possibile nominarlo?).
Per farlo, accosta frammenti di storia anche minuscoli, anche apparentemente insignificanti, fino a mosaicare una biografia che dà subito l’impressione di eccedere se stessa, di essere qualcosa di più. Tutto, senza cadere nella tentazione di provare a spiegare: rinunciando, giustamente, a uccidere il simbolo (sarebbe possibile spiegare?).
Il libro non parte dalla vita sportiva di Thorpe per poi rievocare le sottovite del Thorpe padre, del Thorpe marito, del Thorpe atleta, del Thorpe attore, del Thorpe poveraccio o del Thorpe icona. Semplicemente, salta avanti e indietro nel tempo, a partire dalla morte e dalla sepoltura dell’uomo, mettendo in scena l’uomo nella sua interezza, nella sua contraddittorietà. E questo, viene da pensare, è lo sforzo che ci si aspetta da una buona biografia.
«Quando nacque Thorpe, i bisonti erano quasi estinti. Neanche nove mesi prima, la sconfitta degli Apache di Geronimo aveva concluso l’epoca delle guerre indiane. Gli Usa avevano finito di colonizzare il continente e imposto il proprio modello. Per riuscirci avevano regalato coperte infette per dare il vaiolo, avevano modificato trattati diplomatici dopo le firme, interrotto centinaia di chilometri di marce forzate solo per uccidere chi camminava troppo lento».

Come emerge dal libro, quella di Jim Thorpe è una storia di subalternità, ma anche di riscatto: è solo la prima di queste due condizioni, però, a sembrare perenne e definitiva. Alle origini non ci si può sottrarre, mentre tutto il resto – serenità, riconoscimento, una paga equa – sono una conquista per cui serve combattere tutti i giorni. Da qui le fughe, i viaggi, i silenzi, le esplosioni di violenza. Niente è per sempre, niente è dovuto, anche quando sembrerebbe scontato, anche quando sembrerebbe giusto: la storia di Thorpe, in questo senso, è un vero e proprio monito. E ci parla dell’oggi come di cent’anni fa.
In un’intervista, Giagni racconta che ciò che lo ha colpito di più del personaggio di Thorpe è «La capacità di reinventarsi continuamente, di rialzarsi dopo le cadute, di smentire qualunque aspettativa. La sua figura di ponte tra culture, di mediatore tra l’universo nativo e gli Stati Uniti bianchi. E il modo in cui la sua storia incrocia la grande Storia, dal presidente Eisenhower a Marilyn Monroe. Per dire: la prima moglie di Thorpe era stata invitata a ballare da Geronimo, la terza moglie aveva cantato nei locali di Al Capone».
Di queste corrispondenze storiche il libro è ricco. Non sono inserite per il gusto dell’aneddoto, ma dosate e incastrate per tessere una trama, per sottolineare l’unicità di una vita davvero senza uguali, in cui un talento infinito non è mai stato garanzia di nulla.
«Dopo la scuola e a conferma degli ori nelle multiple di Stoccolma, l’adulto Thorpe continuò a esprimersi in sport diversi con naturalezza, come se a cambiare fossero solo le regole intorno al suo talento».
Giagni riesce identificare in Thorpe un eroe underground, struggentemente umano pur nella sua eccezionalità totale – è diverso da tutti noi, non c’è dubbio, ma è come noi quando cede alla rabbia e rompe una mandibola, quando si trasferisce a Detroit per un lavoro da sorvegliante – e a far brillare la propria scrittura di una sorta di luce riflessa, pura, priva di inutile enfasi. Luce che, a dire il vero, non si sa bene da dove arrivi, cosa la emani, perché Thorpe è l’Ombra: la sua storia sprofonda nel buio.
È solo al buio, però, quando l’occhio si abitua, quando si ha la pazienza di guardare, che si scorgono certe sagome – i lampi di un contorno. Un uomo, una storia, il principio di una forma.
Tutto sta nel saperli riconoscere. E raccontare.
Di Simone Beretta

