Le emozioni, i ricordi, le sofferenze e persino le parole degli avi e dei genitori si imprimono nel Dna e lo modificano per sempre: è questo il punto di partenza e di arrivo di Nostra Signora delle Nuvole, romanzo autobiografico di Mirko Zilahy uscito per HarperCollins nel 2023 appena concluso.
In questo libro, dopo essersi chiesto fin dove fosse lecito spingersi per parlare di una parte così intima della sua vita, lo scrittore affronta a ogni pagina la sfida con una memoria a volte favolosa a volte tragica e racconta di Annarita – figura centrale di donna, madre e voce che continuamente ritorna a disegnare figure nel cielo – capace di proteggere i figli dalla durezza del mondo reale con l’energia del linguaggio, delle storie e dell’immaginazione.
Nel percorso autoriale di Zilahy, tutto contribuisce alla costruzione di universi linguistici, letterari, espressivi e narrativi che hanno forme diverse ma un’anima comune, ma – come afferma lui stesso – su una cosa non c’è dubbio: si può approcciare all’arte della scrittura solo con coraggio, incoscienza e spietatezza verso di sé.

Tu vieni dalla letteratura di genere e dalla traduzione: quando hai deciso che fosse arrivato per te il momento di raccontare questa storia e quanto coraggio richiede scrivere un romanzo autobiografico?
Prima di rispondere a queste due domande vorrei brevemente affrontare la tua premessa. Sì, io “vengo” dalla traduzione e dalla letteratura cosiddetta di genere, eppure non trovo che ci siano discrepanze, distanze né dissimilitudini tra quei mondi e questo più autobiografico e letterario. Di più, a guardar bene, la traduzione dall’inglese e la scrittura di romanzi di genere può dare l’idea che da lì sia iniziato tutto e poi io abbia avuto il desiderio o la necessità interiore di cambiare o provare qualcosa di nuovo. È sempre buffo notare come il percorso di uno scrittore inizi da dove si principia a leggerne il curriculum. Perciò mi viene da dire che se guardiamo alla “parte emersa” allora sì, io vengo da lì. Se invece consideriamo il sommerso – a cui mi rivolgo con enorme piacere – magari si può pensare che vengo da un altro mondo: accademia, insegnamento, giornalismo e allora questo cambio clamoroso magari non c’è stato… o ancora tutto contribuisce, ogni volta, all’ideazione, alla costruzione di universi linguistici- letterari-espressivi-narrativi che trovano forme diverse ma che hanno in fondo la medesima anima. Nello specifico di Nostra Signora delle Nuvole non c’era la storia che mi premeva in testa perché questa è la nostra storia e l’avevo dentro da sempre, almeno in potenza. Credo invece che sia scattato qualcosa nel momento in cui, libero da vincoli contrattuali, mi sono trovato sospeso in uno stato di grazia e ho semplicemente messo gli occhi su un .doc bianco – senza obiettivi, direzioni narrative, consegne – e dopo la primissima pagina scritta di getto mi sono accorto che da lì, da quell’incipit avrei potuto raccontare la storia di Annarita e del suo mondo favoloso e tragico.
Sul coraggio: non credo che ci si possa prestare a quest’arte senza una smodata dose di coraggio, di spietatezza nei propri confronti, e persino di incoscienza. È così quando traduco, quando affronto le latebre più profonde dell’animo umano e quando devo scendere nell’inferno della memoria per riesumare il cuore incandescente di una madre. In questo romanzo però ho affrontato ad ogni pagina la sfida con la memoria e con il lecito chiedendomi spesso fin dove potessi arrivare, spingermi, per raccontare, per estrarre i miei/i suoi/i nostri pezzi di lava fumante.
Il libro racconta, attraverso i tuoi occhi, l’infanzia di un bimbo di sette anni e dai sette nomi che si ritrova a crescere tra un padre cinico, severo e distante e una madre forte e protettiva che fa da filtro al mondo circostante. Che bambino è Mirko e che adulto si scopre?
Un bambino felice che attraversa quotidianamente i tre regni, quello interiore, quello familiare e il reale, con la sensazione di dover operare una sintesi impossibile, ma necessaria. Annarita è un personaggio che protegge la prole con l’energia del linguaggio, delle storie e dell’immaginazione evocata, una donna che invece di dotare i figli di strumenti solidi ed efficaci per affrontare il mondo di fuori dona loro la potenza della voce, del miracolo linguistico. Una madre che salva i figli dal reale e li condanna, contemporaneamente, alla sconfitta nel mondo vero, perché i suoi bambini lo affrontano come se fosse pura fiction. E questo è uno dei temi che ho cari e che in fondo torna in tutti i miei romanzi, persino in alcuni che ho voluto tradurre: la fiction è ovunque e ci abita sempre, ogni istante. È impossibile non essere fictional e dovremmo allenarci a “ragionare” come esseri non reali ma immaginari, come personaggi delle nostre storie e dar forza alle stesse, attraverso i linguaggi particolari, le immagini e le voci che li animano. In fondo la vita è già di per sé una continua autonarrazione che interseca storie, le sovrappone, opera sintesi e sceglie temi e morali che ci rendano vivibile lo spazio interiore, quello in cui dialoghiamo con noi stessi e con la folla di fantasmi che ci abita. Sul diventare adulti… devo dire che non so bene cos’è un adulto se non un bambino a cui è stato imposto un ruolo sociale, un’istruzione standard e un orizzonte di aspettative condivise.
Per Annarita, figura centrale del romanzo e madre di Mirko, le cose necessarie sono “l’amore e la lingua”. Per te è lo stesso? Quanto contano le parole e l’immaginazione nella costruzione del mondo?
In quell’universo, l’amore e la lingua sono gli ingredienti della ricetta per l’immaginazione che è l’energia che letteralmente fa il mondo. Perché un luogo è sempre un linguaggio. Per me la lingua familiare è stato un santuario, un rifugio invisibile sia prima che dopo la nostra mezzanotte. Oggi, con i miei figli, mi rendo conto di come il nostro piccolo idioletto abbia in sé una forte connotazione annaritesca e contemporaneamente viva di una spinta in avanti necessaria e vitale. Loro però sanno, come lo sapevamo noi, che l’invisibile è una forza effettiva ed efficace, in tutti i sensi.
Scrivi nella nota finale: “Ho scoperto che le parole s’imprimono nell’elica del Dna come le ferite e sono capaci di modificare la vita e quello che lasciamo dopo di noi”. Come hai raggiunto questa consapevolezza?
È il punto di partenza del romanzo e quello di arrivo, in effetti. Anni fa ascoltai Daniela Lucangeli che parlava di epigenetica e di come le emozioni e persino le parole, i ricordi, le sofferenze degli avi, dei genitori, si imprimano in qualche modo nel Dna modificandolo per sempre. Fu una rivelazione e pensai subito che i due mondi, quello immaginario e quello scientifico, la poesia e la biologia, avessero finalmente trovato un punto d’incontro. Iniziai così a scrivere la prima pagina del romanzo e mi resi conto che c’era in nuce tutto il libro, la storia di Annarita, delle sue fortezze sopra alle nuvole e quella dei suoi figli salvati dalla mera solidità del mondo, condannati alla inconsistente natura dei sogni.
Chi è Nostra Signora delle Nuvole?
Una madre, una donna, una voce che ritorna sempre e per sempre a disegnare figure dentro al cielo. La regina dei nostri spazi interiori, la Signora dei nostri cieli immensi. La custode della nostra infanzia perenne, del luogo in cui l’immaginazione è più forte della realtà. In cui le parole sopravvivono al corpo, si trasformano in Dna e risorgono in un’altra carne. Sempre e per sempre.
A cura di Annachiara Atzei
In copertina: Andrea Mantegna, Trionfo della Virtù, 1502 (particolare)

