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Julia-soboleva

Dicembre narrativo – A chiudere il cerchio un racconto di Danilo V Paris

Õina, Arowë, thoothothopi: la casa e i nomi

 

Di Danilo V Paris

 

Da mesi ero frequentato dai Napëpë, perciò tutto era rimasto buio da quel momento, dall’incontro con le genti di Hayowari, trascinate dalle acque di Motu uri u e le immense distese di sabbia dove vive Remori. Anche le luci delle serre spente, tutto in uno stato criogenico, larvale, larvale quanto la casa che mi ospitava, che in nessun modo provai a svegliare dal suddetto stato di latenza, lasciando per quanto possibile ogni cosa che vi si depositava a germinare, nascere indegnamente, crescere in modo aberrato e poi morire, decomporsi e spargersi ovunque fino a parassitare le pareti, trapelare l’interno della struttura e scongelare le uova di entità preistoriche o, come mi avrebbero precisato in seguito, di në wãri kanasi, nelle tubature e nelle fondamenta, in cui proliferano cibandosi dei miei antenati nel fiume Batau, scorticandone le essenze ectoplasmatiche e rodendo quindi la consistenza astratta della mia eredità, di questa mia ferocia cannibale e indigena, aborigena e scissa, nello stesso tempo, delocalizzata e locale, traditrice di qualsivoglia aggressività di appartenenza, nel momento stesso in cui mi si vedeva appartenere; i germi sono travasati dalla pavimentazione ammuffita, aggrappandosi all’anima metallurgica del mio materasso, che è esondato, straripando le sue molle.

Ogni notte le molle arrugginite sotto le lenzuola strappate scorticano parte di me un pezzo alla
volta, schizzando via dalla mia pelle le tracce del fuoco del racconto di Ginevra Qiauhoutlec, la mia trisavola, immagino, in piedi sulla barca sfondata dei Yanomamö, sul fiume, e poi sui monti Parima, in piedi sulla punta lignea acuminata e storta dalla pressione del fiume mentre erutta, rigurgitando i semi di mercurio insufflati nelle sue viscere, attorcigliandosi attorno alle sue caviglie e sbavandole sulla schiena, escoriata fino al midollo e scucita fino al cervello, e salendo, come rigonfiato di bile, salendo le placche e smarginando la ferita delle epoche, fino a dentro la mia gola, arsa e fatalmente secca dopo averne bevuto per tutta la notte le schiume ribollenti.

Mi alzo, nella notte, per bere un bicchiere d’acqua: la cucina gronda da ogni parete sarcopto, i bicchieri sfilano sulla tavola dei patriarchi in pezzi, la muffa, ancora, ha crepato la ceramica delle tazze che riempii di birra o thè o litio quattro mesi fa, o forse di hwërɨ, che facevamo con le ciperacee, il pavimento è umido e formicolante, brulicante di figure narcotizzate che mi masticano i piedi nudi o forse li leccano, rilasciando sostanze chemiautotrofe, si alimentano ossidando la chimica inorganica interna alla mia carne, morta e avvizzita, incollata nelle ossa, mentre il soffitto si apre in un crepaccio.
E vedo… cosa. Dalla grossa apertura che ovunque gocciola dal soffitto, che crepa sulle mensole, gli armadi e gli orologi a pendolo accatastati, vedo Ginevra, mia nonna, cioè la mia trisavola o almeno credo, perché l’associo a un ritratto che mi hanno fatto vedere di quella che dovrebbe essere la nonna di mia nonna, nata in un imprecisato luogo amazzonico. Ginevra si affaccia, insieme ad altri sedici aborigeni dipinti di rosso, i sedici thoru wakë caduti da Sina t’a, mi guarda e mi giudica, mentre l’Orinoco, il Mahara ‘U, urla come un drago alle sue spalle, mi guarda e poi mi dice:

“MANA ANCHA VALORNIYUQCHU!”

Che cosa? Chiedo io, con le lingue dei “llimp’iyuq”, umide e nerastre, che mi si arrampicano fino  cosce, mordendomele fino all’inguine sanguinante e il hura a wai, che da settimane ha cominciato a infettarmi, producendomi la splenomegalia, cioè un ingrossamento urticante della milza. Che cosa, chiedo io, con le lacrime di dolore che mi trafiggono.
“Ha detto che sei un cagasotto!”, dice uno di quelli e tutti gli altri prendono a ridere di me e anche mia nonna sorride e mi guarda intensamente.

“MANAM QALLARIYTA ATIWAQCHU HUCH’UY NINAPAS”

“Ha detto – “ “ Lo so che ha detto!”, dico io, di scatto, anche se non lo so minimamente, anche se il petto mi brucia e il lampadario con la lampadina spaccata che scoppia a intermittenza mi acceca e mi fa impazzire, anche se le finestre sottili si aprono al gelo così servizievolmente, infliggendomi reumatismi prematuri, anche se i fottuti llimp’iyuq ormai sono ovunque intorno a me e il loro re mi sta davanti, sollevato in una schiuma di fuoco vermiglia e piena di denti, insieme ai suoi vampireschi accoliti affondano i loro denti su di me, tutti insieme, sul collo, sul cranio tra le cosce  e nel petto.

“MANAM QALLARIYTA ATIWAQCHU HUCH’UY NINAPAS”

mi dice ancora e lì allora… mentre tëpërësiri comincia ad aprirsi sotto di me e tutte le tempeste al centro della voragine dove cresce l’immensa pozza, gli yaporari con il corpo d’anguilla e le teste implose in uno sgorgare di occhi e viscere inabissate dalle alluvioni e riunite in un cappio insieme agli altri xapiri neonati e ai kumi, e alle thuëyoma pë decapitate che mi si avventano, si strofinano contro di me, mi si attaccano sul collo, una comincia a infilarsi dentro la mia bocca e i miei occhi lentamente si imprimono in lei fino a scomparire, fino a che non sono uxi pë nëhë mohotiamãɨ, ingeriti nella cenere.
Lì mentre già il mio corpo non è più niente, fluido e riunito al tëpërësiri dell’oceano risalito dalle tubature, lì… succede. Divampo, cazzo prendo fuoco da tutte le parti, prendo fuoco dai denti, dalle narici, dagli occhi, dall’interno cavo del petto e dalle palle anche, prendo fuoco completamente.

Insieme al resto. Crepo insieme alla struttura che mi stava attaccata per lo sfintere da prima che nascessi, insieme ai libri, alle mappe con cui avrei ancora potuto raggiungere le altre serre nel thoothothopi  insieme agli scritti e le testimonianze su quando arrivarono.

“Fottetevi”, dico io, un attimo prima che la lingua si arroventi e venga via, insieme alla conoscenza delirante di una lingua aliena, “uxi pë nëhë mohotiamãɨ “ dico io, “succhiate la cenere adesso”, dico io. Succhiate la cenere: questo abbiamo ereditato e questa è la cosa più preziosa che potremo lasciarvi.
È bruciato tutto, anche la banderuola nel camposanto, insieme alla casa è bruciato anche il campo dell’agrimensore, e il yanomae thë pë urihipë, la terra-foresta dei yanomami nella mia serra. Dormo per secoli, abbrustolito sotto la cenere e i carboni incandescenti della mia vecchia casa, con le travi che mi hanno frantumato le ossa e poi me l’hanno sbriciolata e oltre a Yai thë, le cose che non si vedono, l’ultima cosa che vedo è lei, Ginevra, mia nonna, che gocciola come resina dalla colonna di acero della sala concerti, e dice “Tu sei Manam, tu non puoi morire di fiamma. Alzati”.

Yai thë, mi alzo, Yai thë, ripeto, anche io sono un Yai thë e brucio senza che nessuno mi veda, sono io che brucio via dalla carcassa di Herona, il grande bradipo addormentato sulla ferita aperta e di urihipë e non muoio, è vero, ma continuo a bruciare sotto la crosta.

Sono nel nodo di segnatura della culla, nel punto della foresta in cui napë pë yai si accampano,
quando braciere della notte si rovescia. Non fui la vendetta, fui soltanto il fumo. E per questo, poco prima gridano Yai thë, perché giurano di avermi vista, poco prima che la pelle si sconci, giurano di aver guardato i miei occhi, Õina, Arowë, sepolto nella casa di thoothothopi nei pressi del fiume ingiallito del Sacco o delle sue ridicole emanazioni, il Cosa e il Liri.

 

 


In copertina: illustrazione di Julia Soboleva


 

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