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«Amore, non so come si fa l’amore»: Centomilioni, l’esordio di Marta Cai (di Giorgio Castriota Skanderbegh)

La poetica del piccolo sembra essere una linea di grande importanza per i romanzi d’esordio di questi ultimi anni. La magnificazione delle cose minute, la mise-en-scène tragica della somma dell’insignificante che forma le fondamenta del mondo: Centomilioni (Einaudi) di Marta Cai sfreccia su questi binari. La protagonista Teresa è media, mediana, un personaggio che si descrive con i “né”: non è alta, non è bassa, non è magra, non è grassa — non è viva e non è morta. Come il Guglielmo Sputacchiera ravasiano, Teresa ristagna in una provincia cartacarbone che neanche ha un prodotto tipico, che macina anime fino ad amalgamarle con la ghiaia del terreno, un paese fatto di abitudini, pettegolezzi, routinario nel pensiero e nell’azione, isolato da una cupola che fa da scramble ai moti e ai guizzi; Teresa vive con i genitori, con la madre despota e il padre fuori di sé per l’Alzheimer. C’è la famiglia, c’è la fila dal macellaio, c’è il paese-palude, ma le pulsioni sono come l’acqua, e trovano la via d’uscita anche dal sigillo più stretto: Teresa nasconde un amore proibito, per un ragazzino a cui insegnava nell’istituto di recupero in cui è impiegata. Un ragazzino che ha ancora le macchiette bianche da mancanza di calcio sulle unghie. Il presentimento nabokoviano del lettore è tenuto a bada da un (minimo) beneficio del dubbio per alcune pagine, finché — en passant — viene citata l’età di Teresa: quarantasette anni, ventinove in più del diciottenne Alessandro.
È il corpo di Teresa che rimpiange, che recrimina, è la mente nel suo senso più carnale, è l’agglomerato di gelatina nella sua scatola cranica che urla per un sollievo. Quando Teresa sogna il suo Alessandro è prima un contatto fisico che immagina e anela e, solo dopo, un romance sognante. Bruciante, il desiderio imperversa creando alibi, cercando vie: Teresa esiste in funzione di questo, per questo sopporta un’altra giornata a sgomitare con le casalinghe per il polpo più fresco, le battutine della madre sul suo corpo inammissibile, sbagliato.
Tutti i personaggi sono corpo, e agiscono il loro corpo. La signora Maria, madre di Teresa, è una donna sovrappeso che occupa anche idealmente tutti gli spazi, che spinge via sua figlia fino a parlare per lei, in quella che viene definita una «tradizione millenaria», che critica Teresa per la sua magrezza invidiandola in segreto, che le rinfaccia la mancanza di forme femminili, che l’avrebbe voluta fuori dal suo corpo – maschio, preferibilmente. Il signor Piero, padre di Teresa, è un guscio canticchiante, svuotato dalla malattia, il centro di comando che spinge solo fluidi; Piero è tutto funzioni corporali, è tutto urina e saliva. Che sia davvero malato? Sta forse rifugiandosi nel suo corpo per fuggire alla moglie?

 

 

Teresa è maestra di automortificazione. Come la Gorane di Valentina Maini (La mischia, Bollati Boringhieri), Teresa disincarna le caratteristiche di un corpo florido, i capelli corti e pratici sovrastano una figura magra, smagrita. Teresa finge menomazioni, si tortura con perle nelle scarpe per concentrarsi sul dolore fisico, vomita la sua cena di compleanno. Il suo rapporto difficile col cibo fa eco alle sue incertezze con altre funzioni della sua carne, come la pelle d’oca al tocco di un amante, mai sentito in vita sua. Quarantasette anni di privazioni, di educazione monacale, di sussurri di suore e madri, hanno ricoperto di scorza una sagoma che grida vendetta e che cerca in Alessandro l’uomo che vale tutti gli uomini.
Alessandro è corpo giovane, autoproclamata perfezione, «nato stupendo»; è presentato come esteta huysmansiano, innamorato delle sensazioni, di sé stesso ma non dell’amore. Alessandro ha imparato dalla madre il cinismo dell’attesa, il desiderio di fuga, la concessione condizionata di sé per un guadagno materiale. Alessandro è vigore ed esasperazione, e non esita a inquadrare la “Vecchia Porca” Teresa nel suo schema di compravendita; le darà quello che vuole, in cambio dei Centomilioni (o trentacinquemila del nuovo conio).
Questi sono il pomo dorato che si nasconde silenzioso nella valigetta tarantiniana di diverse famiglie del luogo, il frutto di passate speculazioni edilizie che forma le fondamenta di una fortuna immobile, da portare nella tomba, o al massimo scambiare con un partito per la propria figlia zitella. I Centomilioni sono la provincia stessa, forniscono il biglietto per accedere a qualcosa che non si sa neanche definire. Ma devono rimanere sepolti, nascosti. In un romanzo in cui tutti mentono, in cui «la vera libertà è non dire la verità», Teresa affida solo al suo diario i suoi veri pensieri; ma il diario rimane incompleto, si ferma prima della fine. Ma allora chi ci sta raccontando la storia? Chi si insinua esperta entrando e uscendo da pensieri inaccessibili anche ai personaggi stessi? Qualcuno ci espande la vita di Teresa, il cui raggio si muove all’altezza delle particelle, fatta di momenti subatomici catturati in una prigione mentale e fisica. Questo qualcuno si rivolge al lettore fino all’ultima pagina, avvisando che la realtà è realtà, e l’iperrealismo viene al prezzo di infinite delusioni. Il mondo di Marta Cai non emerge dalle sabbie mobili della banalità, e vista una Teresa viste tutte, e visto un Alessandro, visto un adolescente tipo che dopo una pagina di Nietzsche origliata a scuola crede di aver conseguito la laurea in nichilismo da didascalia, visti tutti; ma dentro questi tutti e tutte si agitano forze ribelli, sentimenti da grande epopea, che gridano l’ultimo grido prima di spirare una morte indignitosa.
La lingua di Marta Cai ben accompagna la caotica immobilità delle Teresa del mondo. L’indagine della sua solitudine, quello che ce la rende comprensibile, passa per un parlato continuo, che travalica i confini della forma, e così i pensieri si susseguono e si intrecciano, si subordinano, si sdoppiano, e la mente di Teresa è invasa dalla voce e dalle parole della madre; uno stile che si stacca dalla norma a cui ci abituano gli esordi, uno stile i cui picchi e valli sono vissuti con la stessa forza drammatica. Una lingua per cui anche una Teresa, una donna che somiglia al suo ordine tipico di caffè — «normale, normalissimo, senza niente di niente, né lungo né ristretto, un caffè che
arrechi il minor disturbo possibile» —, può aspirare alla magra consolazione dell’epica.
Degli eterni presenti vissuti dai personaggi, quello di Alessandro è sbilanciato in avanti, mentre quello di Teresa è proteso all’indietro, anela lo ieri. La conclusione giunge inevitabile, perché, come spiega il narrator* parlando di Teresa, «lei esisteva prima di me, esisterà dopo di me». Dove tutto fallisce, si può sempre continuare a fallire, continuare con l’infinita ripetizione, con il non-desiderio.

 

Di Giorgio Castriota Skanderbegh

 


In copertina: Zampone e lenticchie tantisoldi per gente dalle zampine corte (2020), Enrico Robusti


 

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