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Al diavolo non interessano le ossa: intervista ad Antonella Anedda (a cura di Annachiara Atzei)

Antonella Anedda non ha bisogno di presentazioni. L’involucro ha fattezze di donna, ma ciò che resta invisibile allo sguardo è la sensibilità verso tutto ciò che riguarda l’umano e l’attenzione che, fin dagli esordi, la muove verso gli spazi impenetrabili della poesia.
La sua scrittura è libera perché deriva dalla consapevolezza di una fragilità personale e universale, e la sua indagine si dilata intorno a un punto nodale: l’indissolubilità tra l’uomo e il divenire lo rende allo stesso tempo centro e margine del mondo conosciuto. Ripensarlo e riscriverlo significa metterne da parte l’arroganza e l’autocompiacimento, sicuri motivi di oblio.
A pochi mesi dall’uscita del volume edito per Garzanti che raccoglie tutte le sue poesie, l’autrice ci racconta quale sia stata la costante del suo lavoro e quale il lato che di lei ci appare più generoso: lasciare tracce di sé in testi che non resteranno mai inascoltati.


Di recente, è uscito per Garzanti il volume che raccoglie la sua intera produzione poetica. Non le chiedo un bilancio, ma le domando cosa ha accomunato i suoi scritti in tutti questi anni. Cosa tiene caro del suo esordio e cosa invece è stato necessario lasciare andare perché la sua poesia diventasse ciò che è oggi?

La ricerca: credo sia questa la parola che ha accomunato i miei scritti, quello che mi ha sostenuto in questi anni e penso continui a sostenermi anche ora. Ricerca di cosa? Di quell’angolo che ogni scrittura nasconde, di quello spazio che forse non è neppure possibile definire e tanto meno raggiungere. È una ricerca simile – credo – a quella di una scienza appassionata, ma almeno nelle intenzioni rigorosa, concentrata. Cosa ho lasciato? Ho provato e provo a lasciare pezzi di me stessa, o di quel mondo nel cervello che chiamiamo io.

Torniamo ai suoi inizi con Residenze invernali, in cui si affronta – tra gli altri – il tema del tempo che passa e della morte. Che rapporto c’è tra la poesia, lo scorrere del tempo e la precarietà dell’esistenza? E quale, invece, tra la poesia e gli accadimenti della quotidianità?

Scrivere è indissolubile da un pensiero sulla caducità. I libri sono effimeri – come ricorda Leopardi – ma la consapevolezza di questa precarietà è un conforto, realizza una forma di libertà. Non penso alla caducità in relazione al mio tempo personale ma alla vertigine delle ere: basta osservare i fossili, le conchiglie dove ora c’è un monte o una grotta. La consapevolezza di essere parte di questo movimento, la consapevolezza di passare, siano necessari a ogni scrittura che voglia indagare geografie e storie.

Lei ha un legame strettissimo con la Sardegna. Nel libro Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena racconta di inizi – quelli familiari – e di ricordi personali. Che rapporto c’è con l’Isola e con l’insularità? Guardarla da lontano è una via per riconoscersi?

Un legame molto forte, profondo, certamente nutrito di lontananza ma anche di relazione con il paesaggio. Sì, di relazione con il paesaggio nel senso che Andrea Zanzotto ha dato a questo termine: un paesaggio che non è sfondo ma luogo della mente, non idillio ma spazio aperto in cui interagiscono forze diverse, spesso opposte. I luoghi sono mappe in cui quello che chiamiamo “io” si orienta ma anche si smarrisce. Non sono mai solo luoghi. La distanza geografica della Sardegna, il suo essere isola e isola comunque lontana dal Continente, ha sempre agito, penso, su quello che scrivo.

Dal discorso sulla Sardegna a quello sulla lingua il passo è breve. Prendo spunto da Historiae, l’ultima raccolta poetica che ha per nucleo i concetti di migrazione ed emarginazione, intorno a cui lei tenta anche l’elaborazione di lutti privati e fa un prezioso lavoro sulla parola attraverso l’uso del sardo. Crede che una lingua diversa dall’italiano possa esprimere concetti e sentimenti diversi o addirittura inesprimibili rispetto alla sua lingua corrente?

Credo esista una modalità diversa che si sintonizza e dialoga con un ritmo diverso. Il sardo – come il latino – è spesso più sintetico dell’italiano ma proprio attraverso la lettura e l’ascolto di queste differenze è possibile dialogare con l’italiano e immettere nella sua letterarietà qualcosa che si è perso o che invece deve arrivare ancora. È quello che Kafka chiedeva allo yiddish di fare con il tedesco.

Chiudiamo col suo ultimo saggio: Le piante di Darwin e i topi di Leopardi. Siamo fragili, siamo precari, eppure l’uomo non riesce a concepire sé stesso se non come centro del tutto. Crede che siano maturi i tempi per una riflessione in senso diverso o opposto a questo e come può contribuire in ciò la letteratura?

Essere consapevoli dell’arroganza dell’essere umano nel pensarsi al centro dell’universo, avere appunto una consapevolezza profonda della nostra caducità, come dicono Erasmus e Charles Darwin e Leopardi, rovescerebbe molte prospettive, prima tra tutte quella del potere e della sopraffazione. Non solo, genererebbe un linguaggio diverso, “franco” come chiedeva Leopardi, non ampolloso, cioè diretto, non compiaciuto, non ampollosamente retorico. Vorrei che i tempi fossero maturi per una riflessione ma mentre rispondo alle sue domande c’è la guerra, anzi le guerre. I deboli sono sempre più oppressi, la violenza sembra l’unica risposta che gli esseri umani sono in grado di dare ai problemi. E poi armi, malattie. Vorrei non essere stata profetica quando, negli anni Novanta del secolo scorso, ho avuto la percezione di un’Europa in cui, a partire dalla prima Guerra del Golfo, la parola pace, che allora sembrava scontata, avrebbe avuto meno senso della parola tregua.

 

A cura di Annachiara Atzei


Anatomia

Dice un proverbio sardo
che al diavolo non interessano le ossa
forse perché gli scheletri danno una grande pace,
composti nelle teche o dentro scenari di deserto.
Amo il loro sorriso fatto solo di denti, il loro cranio,
la perfezione delle orbite, la mancanza di naso,
il vuoto intorno al sesso
e finalmente i peli, questi orpelli, volati dentro il nulla.
Non è gusto del macabro,
ma il realismo glabro dell’anatomia
lode dell’esattezza e del nitore.
Pensarci senza pelle rende buoni.
Per il paradiso forse non c’è strada migliore
che ritornare pietre, saperci senza cuore.

 

Da Historiae (Einaudi, 2018)

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