, ,

Il ricordo è un animale che latra da tante bocche: Rombo, Esther Kinsky (di Giulia Oglialoro)

Non c’è abitante del Friuli che la notte del 6 maggio 1976 non abbia avvertito, poco prima del terremoto che avrebbe polverizzato intere valli, delle cupe esplosioni provenire dal centro della terra. Suoni che orecchie umane non potevano decifrare, e che nei racconti popolari sarebbero stati paragonati al fracasso di una miriade di carri lanciati lungo un selciato sconnesso, o alla feroce risata di una divinità sotterranea che, risvegliatasi da un sonno di pietra, veniva ora a reclamare la terra da cui a lungo era stata esiliata.
A queste esplosioni, che sempre, a qualsiasi latitudine, preannunciano l’arrivo di una scossa sismica, i geologi diedero il nome di rombo. Una definizione così essenziale da essere perfino errata – non si tratta infatti di un solo colpo, ma di una serie di tremendi colpi ravvicinati – e chissà che la concisione non tradisca la paura che gli stessi studiosi nutrivano verso il fenomeno. Ci affanniamo a studiare e nominare ogni cosa esiste in superficie, ma è sotto i nostri piedi che si manifestano i fenomeni più imperscrutabili: se i terremoti restano tuttora imprevedibili, nei trattati ottocenteschi, con meno strumenti e meno certezze, gli scienziati non potevano che appuntare che il mondo fosse mosso da forze inspiegabili, e al centro della terra battesse un cupo cuore che non ci era dato conoscere.

Rombo è anche il titolo del terzo romanzo di Esther Kinsky, pubblicato da Iperborea. L’autrice tedesca ha vissuto alcuni anni in Friuli, e in particolare nella valle del Tagliamento, una delle più duramente colpite dal terremoto, imparando a conoscerne ogni anfratto, assorbendo la lingua dei suoi abitanti ma anche i miti e le leggende, e questa intimità con il luogo è la vera materia di cui è infuso il romanzo. Già nelle sue raccolte di poesie e nei saggi – non ancora tradotti –, così come nei romanzi Macchia e Sul fiume, entrambi pubblicati dal Saggiatore, l’autrice cadenzava esplorazioni reali con le divagazioni e i ricordi delle voci narranti, in una continua porosità tra interno ed esterno, descrizione e immaginazione. Tutto ciò che di Kinsky possiamo leggere in italiano lo dobbiamo alla traduzione di Silvia Albesano, capace di rendere in una prosa rapida e musicale il tedesco inventivo e stratificato di Kinsky, che mescola la poesia al lessico scientifico e antropologico. In Rombo, in particolare, lo sforzo di traduzione raggiunge un rigore ammirabile, una pulizia davvero adamantina, ma proprio come i diamanti sotto la superficie nasconde strutture complesse, una sintassi labirintica in cui un traduttore meno esperto, o meno audace, si sarebbe senz’altro perduto. «Com’era il paesaggio prima? Di colpo la gente l’ha dimenticato e lo cercherà nei sogni, per anni – che aspetto aveva il terreno prima dello squarcio, prima dei cocci, delle macerie, dei segni di trascinamento, il terreno sotto i piedi, giorno dopo giorno? Il terreno della vita quotidiana diventa un luogo disturbato, in cui ciascuno cerca quello che ha perduto, tastando, scrutando, tendendo l’orecchio.» Rombo non è un reportage letterario nei luoghi del terremoto: quello dell’autrice è un attraversamento poetico, dove il paesaggio emerge lentamente, senza coordinate certe, come per macchie di luce. Abolendo il pronome “io”, l’autrice si riduce a un corpo-voce che cerca i segni del terremoto «tra le macerie ricoperte d’edera delle case distrutte lungo la statale numero 13, nelle crepe e nelle cicatrici dei grandi edifici, nelle lapidi spaccate, nelle asimmetrie delle cattedrali ricostruite, nelle viuzze vuote dei vecchi paesini involuti come favi, nelle brutte case nuove e negli insediamenti ispirati ai sobborghi del desiderio delle serie americane». Leggendo Rombo, viene da dare istintivamente credito alle teorie scientifiche che vedono nella vista una sofisticata, antichissima, evoluzione del senso del tatto: ogni elemento del paesaggio ha un corpo, di ogni cosa tra le pagine possiamo intuirne la consistenza – persino i fiumi che attraversano il Friuli portano con sé «metamorfiti dolomitici, conglomerati prealpini e il calcare carsico dell’Isonzo, il cui bianco accecante viene attribuito ancora oggi alle ossa dei tanti soldati caduti sul fronte».
All’enumerazione poetica di tutto ciò che vive nella valle – dai fiori agli animali, dai fiumi al monte Canin col suo scintillio lunare – si mescolano i monologhi di otto personaggi, ispirati alle testimonianze di persone che Kinsky ha realmente incontrato durante il suo soggiorno in Italia. Non si tratta di inserti documentaristici, ma di voci che l’autrice orchestra in senso musicale, come se l’umano fosse solo un elemento fra gli altri, e i racconti affiorassero da questa immaginifica esplorazione, come esalazioni del luogo stesso, nella convinzione che «il ricordo è un animale che latra da tante bocche».
Secondo James Hillman, quando facciamo ritorno in un luogo, e avvertiamo il peso e il riaffiorare dei ricordi, quei ricordi non appartengono davvero a noi, ma al luogo stesso. Siamo partecipi di una memoria che abbiamo dimenticato, impressa tra sedimenti e minerali, nei flutti incostanti, sulle mura delle case che abitiamo o su quelle che non potremo mai ricostruire. Proprio questa memoria del luogo, questa voce plurale Kinsky ricerca incessantemente: «Da qualche parte si conservano le impronte? I rumori, le prese incerte, scivolose, escoriate delle mani, i passi strascicati, frettolosi, indagatori, gli zoccoli di animali, i frulli d’ali, i picchietti di becchi sulla roccia. I richiami degli uccelli, le sporadiche voci umane, forse un disegno impresso dai suoni sulle superfici». Perché è questo è l’unico modo per ricomporre ciò che è successo: superare la storia e riconnettersi a un tempo più vasto, dove scrivere è anche risalire le ere, ritrovando il passo e il battito degli uomini che per primi si stanziarono su questa valle – uomini e donne in esilio, cercatori d’oro, viandanti sfiancati da una guerra o solo dalla propria perenne estraneità, incantati dallo scintillio di un fiume, che qui impararono a vivere e sopravvivere, «a nominare un Noi in un paesaggio che non era bendisposto verso nessuno e si comportava secondo leggi che nessuno sarebbe mai stato in grado di capire. Slavine, colate di fango, frane, ogni singola frattura e smottamento accompagnato da un profondo sospiro tremante. Il sospiro della materia, senza malinconia».

 

Di Giulia Oglialoro

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.