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Grazia Cherchi, le fatiche perdute della prima editor freelance dell’editoria (di Giulia Bocchio)

Non c’è ideale che non possa essere tradito e non c’è rivoluzione che non porti con sé anche grandi, laceranti, polarizzanti, contraddizioni. Perché siamo essere complessi, perché la giovinezza libera dalle stringenti sovrastrutture mentali, prima o poi, viene schiacciata dai meccanismi della società e del potere e può succedere di smarrirsi, di accontentarsi, di accomodarsi, di finire dalla parte della ghigliottina. Di leccare, per quieto vivere, qualche culo e di ammetterlo a se stessi solo a tarda sera, solo prima di coricarsi. Non si è meno onesti comunque, solo più soli.
“Eravamo giovani” è il refrain perfetto per riavvolgere una certa storia, ma non è una giustificazione, è qualcosa di vero, qualcosa di molto vicino a quello che potremmo definire ‘un tempo cristallizzato’, anche se lo si può definire tale solo quando giovani non lo si è più.
Va bene, è una cornice non priva di generalizzazioni ingenue, ma racconta e riassume anche uno spaccato, un tempo non così distante eppure già remoto: il Sessantotto e chi lo ha realizzato.
A raccontarcelo, in un romanzo quasi perduto, dimenticato, poi ritrovato e oggi ripubblicato da minimum fax, è l’intellettuale militante Grazia Cherchi. Giornalista scomparsa ormai nel 1995, ma anche scrittrice, curatrice editoriale che, nell’essenzialità e nella discrezione, è stata la prima editor freelance della nostra editoria; fu lei ad accompagnare nel percorso di stesura autori come Stefano Benni, Alessandro Baricco, Dario Voltolini, Massimo Carlotto, Gianni Riotta, Enrico Deaglio, Gad Lerner, solo per citarne alcuni. L’editing è per Grazia Cherchi qualcosa di morale, un mandato che ha a che fare con l’incontro, con la personalità e lo stile di un autore, una cura dei testi che è un esercizio quasi spirituale, in funzione dell’abbandono dell’ego da parte di chi edita: il tocco deve essere impercettibile, un fantasma. Chi legge non deve accorgersene, anzi, meglio, non deve sapere che un romanzo non è solo quell’immaginario flusso di creatività e trama che si riversa sulla pagina bianca. Non deve sapere che non c’è nulla di miracoloso in una storia folgorante. «L’editing è un lavoro che richiede una forte dose di masochismo. Bisogna infatti tuffarsi nell’altrui personalità (anche stilistica) abdicando alla propria; (…) è un lavoro che resta rigorosamente anonimo, di cui si è ringraziati solo verbalmente», scriveva con consapevolezza  su Panorama. Una vita dedicata ai libri e agli autori, la forma d’amore più fedele e duratura.
Ma Grazia Cherchi non è stata solo una delle più importanti editor italiane, è stata una testimone del suo tempo e ha cercato di raccontarlo attraverso il giornalismo, facendo rivista: insieme a Giorgio Bellocchio, nel 1962, fonda i Quaderni Piacentini – a cura dei giovani della Sinistra, una rivista corsara, politica e trimestrale di stampo marxista e gramsciano, che diviene subito un punto di riferimento per i giovani e gli intellettuali non organici, ostili all’asfittica autorità culturale, economica e politica. “Sparavamo a zero su tutti” si diceva in redazione. Erano anni pieni di fermento, di prese di posizione, di pragmatismo collettivo. E Grazia, dietro le quinte della storia e dell’editoria, a un certo punto, decide di raccontarlo, di diventare finalmente una prima persona narrativa, la sua committenza sono i lettori, di cui Grazia ha sconfinata stima: loro non vanno annoiati con il gigantismo dell’autorialità, non vanno ubriacati di aggettivi e arcaismi, né illusi dal gran titolo editoriale, né infiacchiti dalle dinamiche commerciali del libro, ma vanno sorpresi, vanno sedotti, vanno invitati all’ultima cena. Ogni lettore deve essere prima di tutto un complice.
Con Fatiche d’amore perdute, il suo unico romanzo, scritto nel 1993, a ridosso della discesa in campo di Silvio Berlusconi e due anni prima della prematura morte, Grazia Cherchi affonda l’artiglio del sarcasmo nella carne di nove vecchi amici, che sono l’alter ego di persone che l’autrice conosceva davvero, quelle che frequentava, quelle che i lettori attenti possono ri-conoscere ancora oggi.

 

 

Nel libro, Grazia diventa la narratrice autobiografica di un incontro che vede riuniti, dopo venticinque anni di lotte politiche, quindi dai tempi del Sessantotto, nove persone che rappresentano il bilancio amaro di una generazione che ha visto i grandi ideali della sinistra infiacchirsi e perdersi. Fra sconfitte personali, sociali e politiche, l’autrice mette in scena il colpo di teatro che è la storicizzazione dei fallimenti e degli inciampi di ognuno, delle illusioni perdute, delle rinunce.
In una isolata casa di campagna del piacentino, Grazia invita quelli che sono stati i compagni e le compagne di lotta sin dai tempi dell’università: non è una trappola, la sua è sincera curiosità, una risposta ben organizzata alla domanda “che fine hanno fatto, che ne è stata della loro indole impegnata e rivoluzionaria?”. L’affetto e le arguzie speculative sono rimasti i tratti di sempre ma, una volta riuniti fra le mura del disincanto, il carosello delle loro biografie è uno specchio dal riflesso opaco, eppure le voci di questi amori perduti, che sono poi i giornalisti, gli autori, i professori universitari dell’epoca, si cristallizzano in una prosa asciutta, ironica, senza fronzoli, senza giri di parole. I dialoghi folgoranti, ricchi di aforismi e di slanci che oggi potrebbero addirittura diventare meme (se intelligentemente contestualizzati) raccontano intere vite e prese di posizioni plasmate a seconda delle necessità. Colpa della società? Sì, in parte. Ma anche della politica. Qualcuno è si trasformato in chi da giovane combatteva e contestava, chi per un uomo ha rinunciato all’autodeterminazione lavorativa e alla lotta femminista, chi si è nascosto dietro il vuoto creativo delle pose intellettuali, svilendo ancora di più il già vecchio e pigro sistema universitario, chi ha cominciato a sposare la comodità del denaro e del posto fisso, perché le passioni e l’arte non ti danno mai abbastanza da mangiare: personaggi da romanzo, che ricordano tutto, il brivido delle occupazioni, l’amore libero, il trionfo della disobbedienza, la bellezza dell’essere un collettivo, gli anni in cui l’attivismo politico era tutto e definiva il tuo cuore, la tua morale.
“Bisogna prendere atto che è sparito, si è perso tutto quello in cui credevamo, che amavamo, passioni, anzi, fatiche d’amore perdute per sempre”, chiosa una delle nove coscienze chiamate in causa da Grazia. E in questa frase è racchiuso il rammarico di un passato pieno di promesse; il romanzo stesso è, in fondo, una coraggiosa  e diretta testimonianza di ciò che il Sessantotto italiano ha davvero significato all’interno della società mettendone in luce le conseguenze nella vita quotidiana dei personaggi, irrisolti come la valutazione del successo o del fallimento del Sessantotto stesso, che ancora oggi dipende dalle prospettive individuali e dalle aspettative nei confronti del movimento. Il significativo e rivoluzionario impatto che ha avuto sulla società italiana è qualcosa di più complesso e intimo rispetto al mero resoconto storico, l’intelligenza e l’acume di Grazia Cerchi fanno della scrittura e del romanzo materia viva, così viva che quando il libro uscì i suoi amici (quindi i maggiori letterati e intellettuali del Novecento) non poterono che riconoscersi in quella nostalgia e in quell’humor inconfondibile, la stessa scintilla militante che animò la scrittrice sino all’ultimo, sino a farle dire “La mia è un’infelicità con desideri”

 

Di Giulia Bocchio


Grazia Cherchi (Piacenza, 19 luglio 1937 – Milano, 22 agosto 1995) fu tra i fondatori insieme a Pier Giorgio Bellocchio e Augusto Vegezzi e in seguito condirettrice dei “Quaderni Piacentini“, di cui più tardi curò un’antologia. Come giornalista ha lavorato per “Linus“, “il manifesto“, “Panorama“, “l’Unità“. Come curatrice editoriale ha lavorato per diverse case editrici, tra cui Rizzoli, Arnoldo Mondadori Editore, Feltrinelli, e fu autrice fantasma di alcuni dei più bei libri della nostra narrativa. Scrittori, anche assai famosi, le presentavano i propri manoscritti e lei, in notti e notti di insonnia, correggeva, aggiustava, riscriveva. Stefano Benni, uno dei ‘suoi’ autori, le dedicò una poesia: «Grazia ha telefonato: / “Finalmente mi hai mandato / un vero romanzo / asciutto e stringato”. / Grazia, da mesi di dirtelo tento, / era la lettera di accompagnamento». Come scrittrice, molto apprezzata la sua raccolta di racconti Basta poco per sentirsi soli, come critica letteraria la sua raccolta migliore resta, in attesa di altre, Scompartimento per lettori e taciturni: articoli, ritratti, interviste.

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