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Speciale Premio Strega Poesia 2023: Ballate di Lagosta, Christian Sinicco (una rubrica a cura di Annachiara Atzei)

Ballate di Lagosta è un inno al valore della poesia come manifesto di un’idea. Christian Sinicco, triestino, classe 1975, parte da qui per scrivere la raccolta e confrontarsi con il concetto di civiltà, progresso, operosità umana, ma anche di paesaggio e d’amore.
L’autore ha studiato psicologia ed è stato frequentatore clandestino – per sua stessa ammissione – delle aule di Lettere della sua città. La formazione da autodidatta e la sua esperienza all’interno del panorama culturale lo collocano al di fuori di sistemi letterari prestabiliti ed etichette. Membro del board direttivo di Poetipost68, è stato direttore di Poesia del nostro tempo, ed è vicepresidente di Poien, associazione che si occupa di ricerca poetica, filosofica e di benessere interiore.
L’esperienza, pur breve, come operatore nel centro di prima accoglienza sul Carso, punto di arrivo della via di profughi che arriva dai Balcani, è stata occasione per prendere ulteriormente coscienza della scarsa informazione sul tema delle migrazioni e su come la letteratura abbia senso se riesce a parlare della condizione di ciascuno.
In Ballate di Lagosta, finalista del Premio Strega Poesia 2023, Sinicco inizia a narrare da una canzone, dalla musica che si muove intorno, per esprimere un concetto di movimento nello spazio e nel tempo non solo delle persone ma anche della poesia.

 

 

Intorno a quale riflessione nasce Ballate di Lagosta e perché hai scelto questo titolo?

La poesia emerge tra il senso di perdita di riferimenti storici, anche di individualità che hanno lasciato segni, emozioni e riflessioni sull’esistere, e l’urgenza di una prospettiva. Le istituzioni occidentali capitaliste pensano di aver costruito la pace e che le persone vivranno nel consumismo. Io mi sono domandato se l’Europa con le proprie comunità non sia chiamata a un ruolo più attivo partendo da istanze profonde per il progresso. Siamo indotti al consumo e a cambiare, ma non è progresso. C’è una divaricazione tra la vita e la narrazione politica ed economica. Racconto una storia diversa, parto da una canzone sentita in un bar, dalla musica che si muove nell’ambiente, sottolineando le trasformazioni del paesaggio, l’operosità umana e il tentativo di lasciare a chi verrà una prospettiva di civiltà – perché non riusciamo più a coglierla se è importante, se il nostro canto è il motore della storia? La poesia nasce ovunque, anche in un luogo sconosciuto, un’isola del Mediterraneo.

Quanto è politico questo libro?

Esprimo un’idea di migrazione delle persone e dunque della poesia con tutte le sue lingue nella storia. Quanto sia politico dovremmo chiederlo a Giorgia Meloni e ad altri capi di Stato che si fermano sull’uscio di casa quando il bosco dall’altra parte della strada brucia, il solito atteggiamento di conservazione del potere. Anche se la marea che insanguina il Mediterraneo continua unitamente al naufragio di quella cultura che, nata dopo il secondo conflitto mondiale, ha espresso solidarietà, cooperazione, tra le comunità, la poesia che esprime valori sensibili può tornare a essere protagonista, occupare spazi politici.

Ballate, canzoni, rap: in questa scelta quanto è forte il richiamo al canzoniere classico e quanto invece hai voluto discostartene?

Poetiche classiche, romantiche, avanguardiste, new wave, rap, soprattutto la diffusione di una cultura che abbia memoria. Ritmi e metriche che introducono la possibilità di realizzare poesia per mezzo di un’ampia sonorizzazione. Questa è la risposta semplice, ma ce n’è un’altra, perché la mia autorialità si realizza nel margine.
Non faccio parte di sistemi letterari, le redazioni di cui faccio parte sono portate avanti da persone diverse tra loro e libere che hanno un unico desiderio, il dibattito; non compaio nelle mappature e antologie e mi sono chiesto, cercando di comprenderne sensatamente le ragioni, quale fosse il motivo reale. Credo la mia opera spaventi, perché espone la poesia alla realtà e viceversa con un substrato culturale e con alcune sovrastrutture non codificate. Ho studiato psicologia, frequentando clandestinamente le aule di Lettere nella mia città, costruendomi una formazione più che altro da autodidatta. Ho costituito una biblioteca personale, ma con tracciati non canonici, per dire da Vittoria Colonna a Wallace Stevens, da François Villon a Elio Pagliarani, da Ovidio a Franco Fortini, ma sono arrivato tardi a Montale e questo credo abbia reso difficile incardinarmi in un preciso canone della tradizione novecentesca italiana. Questa singolarità si intreccia con le riflessioni politiche, storiche e antropologiche, perlopiù espunte dalle testualità contemporanee come pretesti per i processi di formazione e di interpretazione. Sono venticinque anni che diffondo la poesia in riviste, attraverso eventi e nelle giurie, con una posizione autonoma, esposta ma mai indirizzata a polemizzare su aspetti personali, evitando quell’atteggiamento di sciacallaggio e autoreferenzialità che investe l’ambito della poesia italiana. Non voglio vivere nell’ambiente psicotico di una fantomatica élite, negli schematismi sociali che riflettono sistemi promozionali, competitivi, estromettendo argomenti, prospettive ideologiche. La poesia è altro. È inaspettata. Spesso si può pensare di trattenere per un p0′. La stessa scrittura è un tentativo. Ho pensato che la poesia dovesse uscire dalla psicosi di forme che sono sociali, dalla recita di un canone. Si veda in Trasumanar e organizzar il pensiero di Pasolini su ciò che è forma e organizzazione. È una poesia, la mia, tradizionalista o avanguardista? Hanno peso gli argomenti, non le etichette e chi etichetta ha responsabilità etiche. La socialità struttura l’ambiente letterario, ma le opere non vengono lette. Si giudica senza aver letto perché ci si fida della socialità che raggruppa gli autori, ma mancano prospettive critiche che considerino la realtà, il momento storico e gli argomenti di rilevanza culturale. Prendi il manifesto di Elisa Donzelli su poetipost68.it: si è aperta una discussione attraverso documenti e parole chiave del nostro tempo, ma è comparso immediatamente chi minimizza e tende attraverso articoli, social e blog a colpire, invece di comprendere l’urgenza di una proposta per verificare più prospettive, ampliare il dibattito. La mia poesia è marginale rispetto alla socialità, ma mi sono anche domandato perché sette giurie (Tirinnanzi, Frascati, Maconi, Bologna in Lettere, Poesia onesta, Prestigiacomo e Strega) nell’ultimo anno hanno selezionato Ballate di Lagosta come opera semifinalista, finalista o vincitrice. Testimoniano che forse un’altra organizzazione è possibile? Ma come unire gli intellettuali? La poesia non è un prodotto delle tecniche e nemmeno dei social. La poesia è il fare di individui che considerano la società e fanno interagire la sensibilità poetica con modelli culturali e politici non ancora accettati. Infatti la sua interpretazione è un processo diacronico, destinato a individui tra presente e futuro. Nelle “ballate” ho pensato a fare ciò che non si ha più il coraggio di fare, oltre le standardizzazioni sperimentare stili “popolari” come ad esempio il rap o tradizionali come il sonetto e diverse altre metriche in una struttura generale che varia tra le sezioni, le quali hanno una compattezza concettuale che unisce la sonorizzazione alla più ampia riflessione politica e esistenziale.

Questo è un libro che lascia molto spazio alla descrizione dei luoghi, del paesaggio costiero, delle vite minime degli abitanti e che – mi pare – allo stesso tempo utilizzi posti e persone come simboli di vicende più grandi e complesse che riguardano la nostra storia. È così?

Ognuno di noi è questa storia. I personaggi siamo noi, antieroi di questa epoca che ci ha relegato ai margini in una dimensione uniforme, inerte, ma abbiamo una voce e una coscienza collettiva. I nomi che compongono il libro sono i nostri, come i nomi di chi muore in mare. Abbiamo relazioni non solo con cosa ci circonda e con chi è vicino, ma con chi è straniero, con la distanza. Poesia è immaginare una comunità che guarda al futuro, per comprendere la storia e i processi in atto, per dare un volto alla bellezza. Penso ad Arendt quando sottolinea che la concezione stessa dei diritti umani “sia naufragata nel momento in cui hanno fatto la loro comparsa individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana”. Siamo profughi, migranti, apolidi, noi abbandonati nel precariato, nell’anonimato in cui ci ha relegato la società competitiva, antisolidale. In Ballate di Lagosta dono la cittadinanza a chi non ce l’ha, lotto contro i meccanismi che ci pensano come il target di un mercato. La poesia non è niente se non riesce a parlare della nostra condizione, della risoluzione dei conflitti e dell’inclusione ad esempio, mentre questa società rischia di arenarsi culturalmente, di rinunciare all’esercizio di costituirsi politicamente e democraticamente, di impoverirsi. Abbiamo la necessità di rispondere collettivamente a questi processi.

Anche l’isola è un luogo geografico e allo stesso tempo simbolico, centro e periferia del mondo insieme…

L’isola nella corrente della storia, punto di permanenze, di approdi e di partenze. L’isola umanità con le nostre felicità e sofferenze. Un luogo apparentemente fermo, bellissimo ma sferzato. Dentro dobbiamo trovare la sua e nostra ampiezza, e smuovere ciò che è necessario, urgente.

Tu sei triestino. Trieste è una città di confine, crogiuolo di lingue e di grandi capovolgimenti
storici. Quanto è presente il senso di appartenenza ai luoghi in questo lavoro?

Il confine è un dato di fatto. Per molti è un dramma o una tragedia. Ho lavorato nel centro migranti di prima accoglienza sul Carso, punto di arrivo della via che attraversa i Balcani. Come altri confini marittimi e terrestri, questa è la linea rossa d’Europa, il luogo dove si gioca il nostro futuro, se saremo in grado di offrire una risposta politica o, come sta accadendo, disumana, falsamente economica e burocratica. La mia appartenenza ai luoghi si muove dentro questa riflessione. Uno dei tabù è, appunto, parlare di migrazione, di noi migranti tra la vita e la morte. Condizionati dalle città in cui viviamo, dall’identità, pure da quella letteraria, ma non dobbiamo perdere l’obiettivo politico di realizzare una cittadinanza del mondo. Parlare di Trieste o delle “capitali del niente” non è importante. Esistono macrosistemi economici e strutture capitaliste mastodontiche che la politica non governa, e noi cittadini dovremmo pensare a capovolgere questa situazione.

L’ultima sezione della raccolta è intitolata “Ma voi non fermate il loro canto”. Credi che la
contrapposizione tra “voi” e “loro” di cui tu parli potrà mai essere superata?

Io non fermo il loro canto, tu? Poniamoci questa domanda, vogliamo fermare il loro canto? E se il loro canto fosse prima o poi il nostro canto? Cosa diciamo a chi vuole fermare il nostro canto?

Infine, tra i testi c’è anche spazio per l’amore. In che forma?

L’amore è il luogo in cui muovere la nostra profondità, anche il vuoto da custodire perché possa riempirsi di molteplici significati. L’amore è l’altro tabù del libro, perché ognuno pensa a sé stesso e vuole riempire i vuoti della propria esistenza con il proprio egotismo. Eppure la forma di questa poesia, che è l’amore, è più ampia. Penso che sia necessario trasmettere la possibilità che cresca ovunque, per paradosso anche in nostra assenza.

 

Speciale Premio Strega Poesia 
Una rubrica a cura di Annachiara Atzei


Da Ballate di Lagosta (Donzelli editore 2022)

Fine della processione
entriamo in un piccolo cimitero e penso in una lingua non mia
parole che sembrano dure come i discorsi del prete:
recitano una parte che si ripete nella totale amnesia

poi si arriva ai Signore pietà, Cristo pietà, chiusi da questa parete
di uomini e donne scesi dalla sommità del paese e dalla chiesa
e sogno una grande processione che chiami l’Europa, quando suona

una campanella, il prete tira la sua corda tesa
più e più volte, e seguita con una preghiera, questa volta atona –
intanto la marea che entra nel Mediterraneo si insanguina

come un’aorta spinge il sangue di Cristo tra tutte le capitali
e per un attimo credo che l’orazione duri tutta la mattina –
fissando le lapidi di pietra e i fiori avvolti dai giornali

ci dividiamo come un unico corpo tra le tombe, e io non so più pregare:
per alcuni è un cammino di conoscenza, per altri solo di speranza
e il cimitero è così affollato che non si trova un angolo per amare

Il ramo bianco

Oh che tranquillo mar, che placide onde
Vittoria Colonna, poeta

non so per quanto tempo la luce mi inchioderà alla gioia,
è una deriva che guarda l’acqua, un sogno che dispone lo splendore:
forse hai paura di entrare, e l’inquietudine può rovesciare
l’ostinazione e la tua permanenza – come avrai capito io non sono
e non so quando cadrà la pioggia, qualcosa che sia assente
che cambi l’inerzia abituale, lavando anche solo un pezzo di mare,
il ramo bianco, coperto di salsedine, su qualche pietra e le alghe
restate all’asciutto; è la marea e questo rende il tentativo
ancora più fragile, l’equilibrio precario: dovrei lasciarti dove sei,
dovrei lasciarti lì, mentre il sole sulle onde ti porta a me

La cittadinanza di Ambroz

posso richiedere la cittadinanza del mondo,
eppure sono rimasto fino a mezzogiorno
a guardare lo specchio d’acqua del pozzo
e i fichi caduti dall’albero, rivestito dalla brezza
di metà mattino e non ho avuto paura
di guardare dentro di me e sapere
che significato è quello di essere vicini
a tutto ciò che è finito, compiuto
come il secchio tirato su

*

l’isola è un uomo,
il suo cuore l’estasi e la sua lingua
estesa ovunque, liquida,
ma dopo la tempesta
i colori dell’erba sono bruciati,
il paesaggio si è raffreddato
e ha spinto un vento ignoto
il ciclone dell’inverno tra le barche,
e nessuno ricorda
le parole disperse sul cielo nero,
i nomi morti nel Mediterraneo

*

e tu tornerai ogni giorno all’alba
con gli spazi vuoti da custodire:
tra le pietre scolpite
la linea della costa
sarà mutata, ed io non saprò
di te, se ti tufferai
o scenderai tra i gradoni
di calcare e poserai
sopra la posidonia
la tua sagoma di uomo
che continuerà a muoversi con le onde,
che continuerà a crescere dopo di me,
dopo la mareggiata
e l’erosione della nostra memoria

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