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Un Icaro ibrido che vola fra l’origine e la fine: Rubare la notte, Romana Petri (di Maria Oppo)

 

Il Piccolo Principe, pubblicato nel 1943, è uno dei libri più tradotti al mondo dopo la Bibbia e il Corano, ed è anche l’opera che secondo Gabriel Garcia Màrquez, nel suo testamento letterario Memoria delle mie puttane tristi, “il mondo ama più di quanto ami i francesi”. Come spesso accade, di tanto accecante bagliore, tuttavia, è l’autore a farne le spese: all’infuori della sua opera più famosa, le parole di Antoine de Saint- Exupéry tendono a svanire nella memoria della letteratura, così come le vicende e le imprese che ne hanno costellato l’esistenza e che, per la genesi di questo romanzo simbolo, sono state essenziali. Se però è vero che “l’essenziale è invisibile agli occhi”, esistono sguardi ancora capaci di coglierlo.
La classifica del Premio Strega di quest’anno ha visto in quinta posizione la scrittrice Romana Petri con Rubare la notte (Mondadori), così presentato da Teresa Ciabatti:

Romana Petri inventa un nuovo genere di biografia letteraria, tra la ricostruzione esatta alla Emmanuel Carrère (Io sono vivo, voi siete morti) e quella tutta d’immaginazione alla Joyce Carol Oates (Blonde). Anziché partire dai dati biografici, Petri parte dall’immaginario per ricostruire la vita dello scrittore – vita a sua volta travisata, romanzata al fine di rendere l’essenziale: l’urto tra quel che si crede che sia, e quel che è, tra origine e fine. Cuore puro, cuore malato, il Tonio di Romana Petri guarda da più in alto possibile la sorte degli umani e pone le condizioni di una trasformazione rivoluzionaria, più forte del surrealismo, più forte di ogni paura che incatena alla terra, più forte della morte perché i bambini non hanno paura della morte.
Scrittrice raffinata, in trentatré anni di carriera e venticinque libri, non ha mai ceduto alle mode,
portando avanti una letteratura personalissima e consapevole.

Petri è stata in grado di prendere le parole dell’autore – non le più luminose ma quelle che erano andate perdute nel tempo – e di metterle insieme aggiungendone di sue. “Rubare la notte”, in francese voler la nuit, si può tradurre anche con “volare la notte”, che è molto più di un gioco semantico in questo caso.
Antoine de Saint-Exupéry, che – come è noto – fu pilota civile e in seguito aviatore dell’aeronautica militare francese, amava volarla da solo, quella notte. Nella sua vita non amò null’altro, ad eccezione della propria madre e, forse, degli effetti inebrianti del vino. La figura che ne emerge ha il volto di un Icaro moderno che porta in sé l’anima di un edipico Peter Pan, accudito fino all’esaurimento da una figura materna che viene descritta come minuta e magrissima – quasi si fosse spesa a tal punto per lui da rinunciare alla sua stessa carne – , il simbolo di un passato che Tonio vede passare continuamente davanti agli occhi e dalla cui assenza, forse, tenta di fuggire inseguendo il cielo a bordo dei suoi aerei.
“Se ne sarebbe fatto una malattia, di quel passato impossibile da riesumare. Certo, i ricordi. Ma quelli facevano soffrire. Agli esseri umani un dio generoso avrebbe dovuto permettere qualche viaggio all’indietro almeno ogni tanto. Una volta lo aveva detto alla madre, che aveva sorriso e accarezzandogli i capelli aveva risposto: Il mio figlio fantascientifico. Tonio si era innamorato di quell’espressione.”
Quell’indistruttibile amore materno, che gli offrì sempre conforto e riparo in una vita priva di radici, sapeva diventare anche un dolce impedimento, rinforzando quella sua essenza di uomo-bambino fisicamente massiccio ma dallo spirito leggero e volatile, con una mano tesa al raggiungimento dei propri obiettivi e con l’altra perennemente impegnata a respingerli sempre più lontano. Saint-Exupéry scrisse tanto, spesso in volo, e collezionò una serie di donne – diverse tra loro e sempre troppo distanti da quel suo pianeta d’infanzie rinnegate – cui faceva indossare i panni di muse inconsapevoli o di pubblico non pagante.
“Parlandone con Consuelo e poi con Nelly, disse loro che all’idea di à mille milles de toute terres habitée si aggiungeva ora l’importanza di una rosa. Non sapeva che nesso ci fosse. Ma adesso, invece di una sola rosa ce n’erano due. – È un magro giardino – disse a entrambe, – ma coltivandolo riuscirò forse a farne venire fuori una storia”.
Lo scrittore narrato da Petri non esiste: è un ibrido tra colui che realmente è stato e la proiezione nata e cresciuta nella testa dell’autrice. Una combinazione così ben fatta da rendere difficile comprendere dove termini lei e dove cominci lui, dove finisca il maniacale lavoro di documentazione e dove inizi la fantasia di entrambi che, in fin dei conti, è addirittura la stessa. Simmetrica.
Come se, un secolo dopo, questo gigante quasi buono, con un problema gigantesco con il femminile, avesse finalmente trovato un legame armonico e sano, il legame che aveva cercato per tutta la vita. La prosa inconfondibile, curatissima, densa – non tanto di avvenimenti quanto di suggestioni poetiche travestite da prosa – di Romana Petri consente di gestire con equilibrio la complessità dell’uomo e del personaggio, senza cadere nella tentazione di mettere al centro la sua opera maggiore ma dando spazio a ogni fonte di gioia e spasimo.
“Sono un aviatore, sono prima un aviatore e poi uno scrittore. E comunque sono uno scrittore aviatore. Quando il nostro Sartre dice che le parole sono azioni, a me viene da sorridere. Per scrivere bisogna vivere, cosa che comporta anche il rischio di non vivere. Io la penso così”.
Emerge dunque chiarissima la volontà di non venire ridotto a quell’unica opera, di essere ricordato per la sua natura duplice, per entrambe le sue vocazioni. Desiderio che, fortunatamente, è stato spesso rispettato.
Ad Alghero, dove il nostro, nel 1944, trascorse due degli ultimi mesi della sua vita, esiste un museo chiamato Museo Antoine de Saint-Exupéry (MASE). L’installazione – che raccoglie cimeli di guerra, foto e scritti delegati a tratteggiare la vita dello scrittore – si sviluppa in altezza all’interno di Porta Nuova, una torre costiera situata sulla costa algherese. La scelta di una sistemazione verticale permette allo spettatore di mettersi nei panni dei piloti, di coloro che contemplano il mondo dall’alto e per mestiere ne assaggiano la vertigine e la morte. Saint-Exupéry, che pure aveva conosciuto due conflitti mondiali di cui uno – il secondo – da protagonista, aveva un’ossessione per la morte che niente aveva a che fare con la guerra. La morte, per Tonio, coincideva piuttosto con lo svanire ineluttabile dell’infanzia, con il pensiero angosciante della perdita delle persone amate – in questo caso il padre, il fratello, la sorella – finitudini umane che avevano fatalmente incupito la sua vita. Un sentimento, il suo, che dà origine al cuore della complessa simbologia de Il Piccolo Principe.
Parlando con quella che sarà una delle sue ultime amanti, infatti, Tonio dice: “Prova a pensare alla bambina che eri. Se adesso tu volessi ritrovarla potresti fare il giro del mondo, non la troveresti mai più. Quella bambina è morta. E poi è morta anche l’adolescente che sei stata. Andarla a cercare sarebbe un altro viaggio inutile. Il nostro passato muore. Altro che finire bene… questo ragazzino mi toccherà farlo morire.”
Rubare la notte è un libro per chi ha amato Il Piccolo Principe ma soprattutto per chi l’ha detestato, poiché dare una seconda possibilità alle cose non è mai un errore. E anche per chi fosse indifferente ai fatti riportati, quello di Petri è un romanzo che conserva una natura intesa, da leggere anche solo per la prosa perfetta, meticolosa, da recitare a voce alta, da leggere per la poesia che ne erompe, per i personaggi che si fanno gradualmente sempre più tridimensionali e coinvolgenti fra una pagina e l’altra.
Ma, più importante di tutto il resto, Rubare la notte rappresenta un’occasione per reimparare che, in nome delle passioni che ci pulsano nelle vene, alle volte vale la pena rischiare, anche la vita.


“Posso offrirvi una rosa?

Guardate, mi sono messo in piedi e reclino il busto in avanti con questa simbolica rosa in mano che tengo per il gambo sperando di non pungermi troppo. Solo un po’, solo quel leggero vermiglio su due o tre polpastrelli come quando si suggella un patto di sangue. Volete suggellarlo con me o vi preoccupate solo di dirmi: Tonio rimettiti subito seduto che stare in piedi in aereo è pericoloso?
Madre, fatemi l’elenco di ciò che lo è. Risme e risme di carta, giusto? E forse non basterebbero.
Quindi lasciatemi stare in piedi.
Con la mia formidabile statura aggiungo un po’ di altezza al mio volo.”

 

Di Maria Oppo

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