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L’estate dell’umanità periferica, giorno VIII: Al limite del vivo

Se è un’allucinazione, la vedo – Giulia Bocchio + Midjourney

 

Nello studio pareti color crema, sulla lavagna bianca scarabocchi in una lingua che non è la mia. Senza chiedere, appena entrata, la dottoressa tiene premuto un tasto, poi mi sorride, la guardo appena. Regge in mano una borraccia trasparente, colma d’acqua. La seconda volta che ci vediamo. Stavolta è per tornare indietro, non  ho ancora ben capito come. Cala la penombra, le finestre si opacizzano e assumono la stessa gradazione e porosità delle mura. L’aria condizionata, una patina sulle braccia scoperte, gocce di sudore mi gelano la schiena, ma non fanno in tempo che già si asciugano. Altre ancora scivolano dal collo, e quanto caldo là fuori per poter avere il freddo qua dentro?

La poltrona si reclina e sento accendersi i visori. Un ronzio di fondo prima sommesso come di una vespa intrappolata in un bicchiere, poi un’altra e un’altra ancora: nei visori c’è lo sciame e si posa sul mio viso, nei miei occhi. La dottoressa monitora chissà cosa sul tablet, forse il mio battito che accelera? Ma dissimula, finge di non tenermi sotto controllo. I visori mi si chiudono sul volto: due semisfere di metallo che si ricongiungono in un casco. Stringo i braccioli come stessi per cadere da un momento all’altro. Sento il vuoto. Una trappola, è una trappola il passato, quel deserto. Le vespe addosso, dentro. I visori che mi pungono. La luce attorno, come se sparissimo. Stringo forte: mani sudano freddo.

Si accende di nuovo la luce, ma non è la luce della stanza, sono i visori che mi immergono in un deserto: bianco accecante, giallo bruciante, azzurro sovrastante. Dov’era Caspar quel mattino di luglio del 2044? Dov’ero? Si guarda attorno. Caspar sente il vento soffiargli contro, torbido, e la sabbia alzarsi a ferire il volto, coperto appena da un panno liso. Ai piedi un paio di scarponi rovinati, un fucile troppo vecchio gli penzola sul fianco e gli urta le costole ad ogni passo. Lo punge, lo sospinge. Verso dove? Dove va Caspar? Caspar sta per fare una cosa stupida, ecco cosa. È stato mandato a raggiungere, o forse soccorrere, o forse ancora seppellire, due suoi compagni. Li vede, non loro, non ancora, ma una radura di rovine, un manto d’ombra: due fantasmi d’uomo per terra, in attesa. Non loro. Troppo, per favore, è già troppo. Non li vuole rivedere, non farmeli vedere, ci ha messo così tanto a dimenticare. Arriviamoci con calma, no, per gradi? Dovevamo – Cosa sperava di trovare Caspar? Mai quei volti. I denti in vista, le labbra anelli di squame, il volto un intarsio di scaglie, tagliato come un cretto. Gli occhi attoniti. Impauriti. Caspar guarda i volti che aveva conosciuto per quel che gli pare un’eternità. La pelle inutile carta velina che nasconde e rivela: lo scheletro sottostante. Ma devo rivederli? Chiedere alla dottoressa non aiuta, non funziona così. Caspar è veramente stupito di trovare i suoi compagni così? Ma che cazzo di domanda: no, Caspar non è stupito, lo temeva. Caspar aveva viaggiato per ore nel deserto per raggiungerli. Barcollante, assetato. Non una goccia si era concesso. Si diceva: quando arrivo, un sorso, non prima, non adesso. Doveva camminare. Caspar aveva paura? Doveva camminare. Erano vivi solo cinque pozzi, cinque per centinaia di chilometri, per migliaia di persone. Gli scheletri erano stati mandati dal campo a perlustrare la zona vicina al pozzo, per pianificare, trovare un modo disperato per conquistarlo e portare acqua alla propria gente, per gli anziani, ogni settimana decimati, per i bambini, gonfi e denutriti. I suoi figli. Chissà nel tempo in cui Caspar si era allontanato, chissà se un vecchio o un bambino, salutati qualche ora prima, non fossero già scheletri. Chissà quanto ancora perché potessero avere acqua a sufficienza. Ma quei compagni sono morti, il pozzo è poco distante. Sorvegliato.

Cosa doveva fare Caspar in una situazione del genere? Gli scheletri ormai sepolti dalla sabbia, nascosti alla mia vista. Quanto tempo sia trascorso, Caspar non sa dirlo – né il tempo passato per gli scheletri, né il suo tempo, da quando era giunto e si era fermato a guardarli, a dirsi, E ora che cazzo faccio? Caspar deve aspettare, tocca a lui adesso. Tre soldati, o forse più?, a difesa del pozzo. Un suicidio affrontarli da solo. Il sole accecante disincarna i dettagli, li sfuma fiamminghi. E attorno infonde quest’aura di morte a tutto il suo deserto. Caspar ne ha abbastanza, gli gira la testa. Prova a bere un sorso, quel sorso che si era lasciato da parte, ma la borraccia non gli stilla che un’infima goccia sulla punta della lingua.

Non mi faccia andare avanti, pensare a quando guardavo quei teschi, che mi riguardavano, mi aspettavano, mi ricordavano cosa stavo diventando. Senz’acqua.
Miei specchi, se avessi potuto specchiarmi. Ma dobbiamo andare avanti, scovare il trauma. Afferrarlo per strapparlo via. Si deve fidare, Caspar, continuiamo. Aspetto che mi parlino, un giorno succederà: apriranno le mandibole consunte e pietrificate, sputeranno sabbia e profezie contro di me, come piccoli scorpioni pronti a suggermi le ultime gocce rimaste. Caspar, Caspar, bevi Caspar, bevi l’acqua. Mi pizzico la pelle, a intervalli regolari, o almeno mi pare, per verificare l’avanzamento della disidratazione. Monitoro quanto tempo ci mette a tornare alla normalità, ogni volta di più, è come guardare una cosa perfettamente normale al rallentatore. La mia pelle è di creta, un tessuto secco, pronto a frangersi.

Caspar ha mai provato effettivamente a portare a termine la sua missione, a riprendere il pozzo? Non credo di essermi mai mosso, di aver mai fatto una ricognizione in quei giorni nel deserto. Nel deserto Caspar non può davvero pensare, approntare un piano sensato. Ogni ragionamento, ogni idea, si disancora, causa ed effetto confondono in una miscela di giorni indifferenti. Il sole alto a spargere sul mondo il suo voto di siccità. E forse non sono più giorni, ma sempre lo stesso, che ripete su di me la sua immobilità. Vuole sopravvivere, sperare nel miracolo – vuole il trauma? Eccolo: speravo solo che mi venissero a prendere, che li mandassero prima di quando mi avevano gettato in pasto alle dune. Non volevo fare la fine di quei due, che idioti e io con loro, io come loro, a breve sarei diventato pupo di sabbia, ecco il trauma, li guardavo e li insultavo, marionette scomposte lì ad aspettare chissà cosa. Non farò la vostra fine. La farò tra poco. Non voglio morire.
E aspettavo.

Quanti giorni? Scende la notte, un illusorio ristoro nell’ardore desertico. E cosa è successo nella notte? Sogno una cascata altissima, trasparente, gelida. Sentire i piedi nell’acqua, percepire la corrente lavare via tutto, lo scroscio e gli schizzi sul volto. Il vapore sparso che si addentra finemente per i pori della pelle. E mi fa nuovo. Mi fa vivo. Mi sveglio e nel mattino, già rovente, spero di trovare rugiada sulle poche foglie, ma sono accartocciate, come il resto, come mute di serpente. I due scheletri sono scomparsi. Dunque Caspar non distingueva più la realtà dalla fantasia? Sogna di dichiararsi prigioniero, crede di essere già morto, spera di esserlo. Sono un fantasma. Ricorda ancora i teschi dei compagni a bocca aperta e, non sa se per imitazione o necessità, pure il suo cranio si mette a boccheggiare. Tenta di esalare un po’ d’aria per inumidire le labbra, ma niente, solo un rancido soffio gli carezza i denti. Sta andando molto bene, continui, giunga alla fine, è a portata di mano. Magari fossi un fantasma. Il corpo mi ricorda cosa sono, gemellato col dolore. Vorrei piangere, se avessi lacrime. E a volte sono per intero i miei occhi, li sento rotolare per le dune, scempie, vitree, due biglie gettate nelle sabbie: ogni granello mi strazia.

La fine del racconto è a portata di mano, Caspar, la raggiunga, affondi il colpo. Se non fosse che la mano è fossilizzata, arida, di roccia, pesa su gambe altrettanto gravi, non le sento, non sento quasi niente, le articolazioni non rispondono e le dita sono cresciute, come da dentro, in un’unica nocca, un unico callo consumato. Una corteccia secca di cui tra poco sarò libero. Riesco, lentamente, a sollevarla davanti al mio sguardo, come a parlarci, teschio inerte, come a chiederle soccorso, ma la vista è annebbiata e quella cosa laggiù, distante e attutita, non sembra mia. Non sento più lo scorrere del tempo, il battito del cuore, la pressione dei polmoni, tutti i ritmi che del corpo fanno una clessidra: dove non c’è acqua non c’è tempo, se il tempo è un fiume allora io sono solo un sasso, che aspetto al limite del vivo, dove il tempo è ormai scomparso. E come ti hanno salvato, Caspar? Mi hanno salvato? Non so in effetti se sono mai arrivati, se sono davvero apparsi, se siano sempre stati lì a guardarmi divenire scheletro di sabbia e abbiano scelto quel preciso momento per manifestarsi, per sorgermi davanti. Eccole, poche sagome che da ore distinguo sull’orlo di una duna: si muovono o sono immobili, tremolano come candele il cui fuoco mi brucia le orbite. Sto morendo, ne sono ormai certo, sto morendo, forse sono morto già, un guscio, un fantoccio inutile più di polvere che carne, che parla come gli altri due, a breve sommerso come quei due. Affondo, sì, ma nelle sabbie.
E ora che parlo qui con lei, dottoressa, sono morto di nuovo, affondo nella sabbia di quella mia vecchia morte, impolverata nei ricordi. La prego, mi aiuti. A che è servito tutto questo? Me lo dica lei: cosa sente? A ogni parola sento sabbia scricchiolare in mezzo ai denti, sento le labbra screpolarsi, poi spaccarsi, infine come sgretolarsi, i miei organi interni rallentare, i muscoli impazzire di crampi, il cuore sgonfiarsi.
Prova a dare al corpo sangue ma non ce n’è, non ce n’è più di sangue qua dentro: ascolti. Sente? Sente il vuoto? Sete, sete. Mi sento mancare, vorrei portare le mani alla gola, spremerla come un limone per far uscire una goccia, sento quella morte che esala, vomitata via, si allontana, finalmente, la allontana, vivendola ancora la seppellisco forse per la prima volta. Ma ecco dalle dune scendono, non erano un miraggio, i due profili, salvatori incappucciati, avvicinano alle labbra come un seno d’acqua, al quale mi abbandono. O più loro che mi hanno aperto a forza il gotto e lasciato piangere dell’acqua in gola. Ecco, beva, mi avvento oggi come allora, ogni volta che ho sete, bevo bevo, bevo dalla borraccia della dottoressa, dei salvatori che non ho più rivisto, tanto quanto posso quanto voglio ciò che voglio, acqua succo soda birra vino bianco e rosso, sono composto tutto d’acqua, come la terra sommersa e le terre sepolte, come le meduse delle profondità, lontano dal sole, lontano dal caldo, siamo solo acqua e sono salvo.

***

Fuori dalla clinica privata Caspar inciampa verso la sua jeep nera, scintillante, rovente nel sole del primo pomeriggio, una stella d’onice parcheggiata a cento metri dallo studio della dottoressa. È la prima volta che conclude la storia. Lei gli è sembrata soddisfatta, alla maniera in cui può esserlo chi sperimenta sulle cavie.
Caspar tuttavia si sente di esserle grato. Caspar se lo dice mentre esce, moderatamente convinto, e ora mentre va alla macchina, ancora si ripete che è andata bene. Ma sono pensieri sciolti, senza indole, schiantati al suolo da ogni passo man mano che si avvicina.
La maniglia della portiera scotta. Per un istante non sa come fare, ma respira profondamente e la apre. Si ritrova in una serra: tutto brucia, il volante, la portiera, il cambio, il freno a mano, persino il pulsante di accensione. Abbassa in fretta i finestrini e accende al massimo l’aria condizionata, ma nel farlo suda, suda sempre più, cerca nello sportello un fazzoletto per asciugarsi dalla fronte la tempesta di sudore che, se si fosse guardato allo specchietto, avrebbe visto quanto gli donava quel diadema, quella corona diamantina, trasparente, sulla quale riluceva come dal più complesso prisma il sole attraverso il vetro del cruscotto. Davvero, non sopporta il sudore addosso. E allora rimesta ancora più a fondo nei vani delle portiere, nel cassetto a destra, sotto ai sedili, ma nel farlo suda, suda sempre di più. Lo trova infine, nascosto tra le carte della macchina. Lo tira fuori, incastrato nella sua confezione, e si asciuga con foga, con appagamento, ma asciugandosi il sudore suda ancora, e finisce i fazzoletti con cui ha asciugato il primo sudore, sostituito ora dal sudore nuovo, più appiccicoso ancora, mentre a terra, incastrati tra i pedali, si moltiplicano i fazzoletti usati e lerci, da cui gli sale addosso un odore acre e salato.
Caspar vorrebbe partire. Ma il vetro della macchina è sporco, sporco di sabbia, sembrerebbe. A terra i fazzoletti, l’odore, il viscidume sulla pelle che ritorna. Vuole pulire pure quello, sente di doverlo pulire, di doverlo fare assolutamente imperativamente adesso. Attiva i tergicristalli. Spruzzano deboli, ostruiti dalla sporcizia, e i vetri restano opachi, se non per pochi getti che tracciano linee poco convinte in mezzo allo sporco e la sabbia.
L’aria condizionata sembra finalmente fare il suo lavoro. I polmoni si inumidiscono di nuovo, le labbra si bagnano, il suo corpo per quanto rinfrescato sembra immerso in troppi liquidi diversi. Caspar respira profondamente: qualcosa a cui aggrapparsi in quell’inferno. Ma non può reprimere un pensiero: quanto caldo là fuori, per avere il freddo qua dentro?

Collettivo MONTAG x Poetarum Silva 

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