Talvolta, un libro nasce fortuitamente. Via via, prende forma ignorando il principio di causalità.
Il crollo dell’Hotel Aster raccontato da Mariagiorgia Ulbar per Amos Edizioni colloca i protagonisti di questi indecifrabili frammenti in una situazione imprevista e straniante in cui tutto va ricalcolato e ricomposto, a partire dal sé.
Uno degli strumenti per farlo è il linguaggio, in un corpo a corpo per tentare di descrivere chi siamo e quale sia, secondo la prospettiva di ciascuno, il mondo che ci circonda.
Hotel Aster fa esplodere la struttura tradizionale del romanzo e, attraverso precisi artifici letterari, suggerisce a posteriori un’idea di trama e di realtà, mantenendo contemporaneamente il potere evocativo della poesia.
Il testo si apre con la constatazione di un fatto: un terremoto di intensità tale da spostare l’asse terrestre e il conseguente crollo dell’Hotel Aster sconvolgono tutto cambiando inaspettatamente le esistenze…
Mi è stato fatto notare durante una presentazione del libro che l’asse terrestre non può spostarsi. È chiaro che non c’è fondamento scientifico in questa mia affermazione, ma ciò che mi interessava esporre in questa prima parte è proprio il momento del crollo per poter collocare i protagonisti in una situazione straniante in cui ciò che c’era prima scompare e le persone sono costrette ad andare verso un altrove pur non avendolo voluto, poste in una condizione di non scelta: un cambio di prospettiva che si è spinti a fare per necessità. Il crollo, in altre parole, è ciò che pone in una condizione di scomodità, difficoltà, o di cambiamento, non necessariamente in negativo.
Tu dici: “Narro ogni immagine traducibile in parole in mio possesso”. Qual è il tuo rapporto con la scrittura, come nasce Hotel Aster e come si colloca nel panorama letterario?
Si, l’io lirico del libro dichiara quanto sia importante raccontare storie.
Non avevo un’idea precisa nel momento in cui scrivevo, perché Hotel Aster nasce fortuitamente da uno scambio di frammenti via mail con un amico, durante una sorta di esercizio di scrittura. Poi è rimasta in piedi solo la mia parte, così come l’abitudine di scrivere uno o due frammenti al giorno, senza alcuna idea prestabilita di realizzare un particolare progetto. Per le difficoltà di collocazione del testo, che ha uno stile ibrido – nel quale c’è l’idea del frammento, ma senza la struttura tradizionale del romanzo moderno, piuttosto con un filo conduttore che aiuta, a posteriori, a costruire una suggestione di trama – a un certo punto ho smesso di proporlo agli editori, sempre incerti sul dove collocarlo, come se la scrittura si producesse in compartimenti stagni in cui la poesia e la prosa sono divise da muri invalicabili. Direi che è un libro di riflessione sul linguaggio come immagine di noi stessi dentro un mondo, una società, o un universo: ciò che il linguaggio ci permette di rappresentare di noi stessi, ma che non è tutto perché talvolta è detto malamente o si presta a fraintendimenti. C’è un corpo a corpo con il linguaggio, nel tentativo di campionare la realtà e tradurre in parole ciò che vediamo e percepiamo, pur sempre considerando che qualcosa continua a sfuggire e ad appartenere al non detto.

Per i temi, lo stile, le immagini, l’intreccio e il forte potere evocativo ho trovato numerosi riferimenti letterari: penso a Borges, a Bolaño o a Funetta. Quali sono gli autori padrini di Hotel Aster, se ce ne sono?
Ogni somiglianza riscontrata dal lettore è plausibile, ma nel momento in cui mi approccio alla scrittura non c’è una dedica a qualcuno o un’imitazione – anche in senso positivo – o un’ispirazione a qualche autore in maniera diretta. Tra le influenze ci sono autori o autrici che ho letto o con i quali sono entrata in dialogo, ma non saprei fare i nomi: sono nel mio inconscio e non so trovarne i confini, anche per l’origine occasionale di Hotel Aster. Le voci che vengono fuori dalla lettura sono attribuibili agli archetipi che riusciamo a riconoscere nel momento in cui leggiamo, in una unione tra quello che ci appartiene come persone e che entra in risonanza col testo che stiamo leggendo e in questo frangente finisce per oggettivizzarsi. Ogni impressione di chi legge i miei libri mi mostra la ricchezza e il potenziale della scrittura che non è da pensare “in libri”, ma come un magma unico che si riversa nelle opere nel corso del tempo.
Nel libro, tempo e spazio non sono definiti né verificabili, ma ciò che succede è proiettato nella dimensione del sogno e della visione. Niente sembra seguire un filo logico o una trama, eppure ci sono degli snodi significativi e, nel finale, qualcosa si ricompone.
Nei capitoli che si avvicendano non è chiaro cosa sia accaduto prima o dopo il crollo dell’Hotel Aster, né cosa appartenga alla realtà dei fatti o alla linea del tempo o alla memoria, o ancora, al sogno. Mescolandosi questi piani, si ha proprio l’effetto di confusione spazio-temporale che porta a chiedersi cosa sia accaduto. C’è poi il piano del racconto da parte della protagonista, che è un piano ancora diverso. Per questo, chi legge fa fatica a comprendere il corso delle vicende e come sono concatenate. Se si aggiunge che non ci sono riferimenti chiari a nomi e a luoghi, lo spaesamento è totale, ed è un effetto cercato, che permette a chi legge di andare a cercare i punti che segnano un filo conduttore in parole, immagini, ripetizioni o spazi. Come una via ferrata in montagna, lungo la quale ci sono punti a cui ci attacchiamo per poter procedere pur senza la garanzia di una totale sicurezza, qui ci sono degli appigli letterari attraverso i quali si crea una geografia di appoggio.
In questa sorta di allucinazione, i ricordi si riaffacciano nella mente della protagonista: i testi si fanno più descrittivi e il concetto di memoria si sovrappone a quello di origine. È così? E quanto c’è di reale o autobiografico in questo?
Sì, sicuramente ci sono elementi geografici che mi appartengono: sono nata e cresciuta in centro Italia, ho viaggiato in Europa e in altri luoghi e il viaggio, per me, è una condizione mentale naturale. Anche la vicenda del terremoto mi riguarda da vicino. La mia scrittura non è autobiografica, cioè non tratta questioni personali che mirano a produrre in chi legge una adesione emotiva con il mio vissuto e dunque una relazione compassionevole con me- persona, piuttosto è uno strumento che, attraverso il linguaggio e il disegno, può creare una proiezione, un’analogia. La scrittura è un modo di esporre, nella maniera più scoperta e adamantina, questioni molto personali riuscendo, con gli strumenti retorici e poetici, a nascondere e a proteggere ciò che ci riguarda affinché non venga rovinato, affinché valga come strumento, ma sia lasciato in pace nella sua essenza.
Un tema centrale è quello del viaggio, sia fisico – o geografico (per quanto sia possibile tracciare una reale geografia) – che mentale. Si tratta di una fuga o di un ritorno? O forse è una ricerca, magari dentro sé stessi?
Il viaggio dà un ritmo alla narrazione del testo poetico e crea la percezione di uno spostamento anche se questo, di fatto, non avviene: si va verso un fuori o verso un dentro contemporaneamente. Può essere una fuga o un ritorno e, se immaginiamo di fuggire da un luogo, è facile dire che stiamo cercando qualcosa: una soluzione, un nuovo mondo, un sollievo, una salvezza in una dimensione che non ci appartiene. Attraverso le parole, le possibilità che il linguaggio ci conferisce, si compie un movimento che cerca di affrancarsi dalla linearità e dalla immagine di causa-effetto di una comune concezione del tempo e della storia.
A cura di Annachiara Atzei
Tre frammenti da “Hotel Aster” (Amos Edizioni, 2022)
Eppure non mi sembrava grave. Avevo disturbato?
Non lo credevo quando entrai in quel luogo e ancora oggi non lo credo, sebbene sia trascorso molto tempo, sebbene io abbia
seguito il programma e gran parte delle persone incontrate all’epoca siano scomparse.
In seguito al grande terremoto, l’asse terrestre si spostò di alcuni centimetri e molte cose cambiarono. L’Hotel Aster crollò sul lato occidentale.
Ci furono ore di stasi dopo quel grande rumore, poi tutti uscirono, lentamente, abbacinati dalla luce, e si persero nella macchia.
*
La mia memoria è gremita di piccole strade bianche di campagna, quelle che al centro hanno una sottile linea d’erbacce che le divide in due, strade che si inoltrano, simili ma non uguali, che però non riesco a riposizionare, a ricondurre a luoghi, anni e fatti. Questa mescolanza mi impedisce di tradurre in storia ciò che vedo nel ricordo.
La memoria, in taluni casi,
non è che un’immagine fissa.
*
Io provengo da una terra di colline, montagne, anche, e mare, ma lo spazio maggiore è occupato da declivi morbidi, gibbosità di grandezze svariate, macchie geometriche di colori diversi, rasature, manti erbosi o allineamenti di alberi, case sparse, agglomerati urbani posti molto in alto o dentro vallate, cinte murarie spesso crollate, bastioni isolati, stagni occhieggianti, fiumi stentati, venti frequenti. I crinali delle colline sono costellati di centrali eoliche. Il rumore delle pale in movimento, che ho sentito una volta da vicino, torna di tanto in tanto di notte, oppure nei pomeriggi pieni di mosche dell’estate o in quelli invernali ovattati, e a quel rumore il mio corpo risponde, entra in risonanza, si intorbida
