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Le strade parlano: Dilaga ovunque e l’onda anomala di Vanni Santoni (di Omar Suboh)

La città è un «campo sterminato», e si rivela come un’esperienza estetica in cui, i writers, i veri protagonisti della street art, si muovono all’interno di un palinsesto dotato di molteplici ingressi sensoriali, orientandosi nella notte più oscura fuggendo dalle ronde, dalle telecamere di sorveglianza appostate in ogni angolo di strada – come un Grande Fratello orwelliano: la profezia che si autoavvera –, e allora non ti resta che fuggire, con quel po’ di fiato che ti è rimasto in corpo dopo anni di abusi cronici, per cercare di non farti prendere (Non mi avrete mai!, rappava Inoki).

Dilaga ovunque (Laterza, 2023), e nessuno la può fermare questa onda anomala che tutto travolge: gli angoli dei quartieri in cui è nata la street art, con le prime tag a New York, Philadelphia e nel Bronx,  – come le piastrine metalliche dei soldati, per identificarli dopo essere stati sfigurati –, una sfilza di nomi impossibile da riassumere nello spazio di una pagina. Vanni Santoni imbastisce un dialogo serrato con quei nomi leggendari che hanno saputo far parlare i muri, in un romanzo–saggio che prosegue la trilogia sulle sottoculture inaugurata con Muro di casse e La stanza profonda, tutti editi da Laterza, e  che scorre con la stessa rapidità di un razzo degli stessi colori dell’arcobaleno della gravità, guidati dalla storia di Cristiana Michelangelo – vecchia conoscenza dell’extended universe santoniano e per i lettori del romanzo–mondo dell’autore, I fratelli Michelangelo, il cui pannello era dedicato a un excursus nell’universo dell’arte contemporanea  –; ambientato tra Firenze, Bologna, Londra, Berlino e Barcellona, alla ricerca del suo posto nel mondo, Cristiana è divisa tra volontà di emergere e i compromessi di un ambiente che non conosce pietà (indimenticabile la sequenza a Basilea, per l’Art Basel), e la ricerca delle sue radici: ben salde e piantate proprio nel mondo dell’arte di strada.

Si potrebbe incominciare da Taki183, il primo taggatore di New York, o dai latrinalia romani – le scritte sui cessi ai tempi dell’impero –, o dal dopoguerra, quando anche qui fecero la loro prima comparsa le scritte sui muri, e l’insopprimibile bisogno di repressione di ogni forma di dissenso si riversava contro quegli slogan inneggianti a Lenin, o a Togliatti, come ci ricorda Gian Maria Volontè nel Cittadino al di sopra ogni sospetto; o dalle grotte di Lascaux, o in quelle di Leang Tedongnge in Indonesia; dall’Art Brut: se volessimo ricercare una patina di legittimità nella storia dell’arte ufficiale, che nasconde, ancora oggi, una pletora di artisti outsider molto spesso autentiche fonti non riconosciute delle opere più note, quelle finite nei musei e nei manuali – come ha ben mostrato nel suo monumentale lavoro in tre volumi Alfredo Accatino –, intesa come quella produzione artistica di «persone perlopiù estranee alla cultura», e che rivendica nella spontaneità del gesto, privato di regole o indottrinamenti di quella o dell’altra scuola, la possibilità per tutti di dipingere o di scrivere su un muro, come tutti possono parlare. 

Sarebbe necessario partire da un Elogio alle tag, per citare un’altra fonte imprescindibile di questo viaggio al termine dell’arte di strada, dei graffiti – curato da Andrea Cegna per Agenzia X –, e cominciare delineando il rapporto che intercorre con il concetto di spazio pubblico e decoro: concetti che si mescolano, ineludibilmente, tra di loro, e dove nello stesso calderone vengono gettati estetica, repressione sociale e speculazione; perché se un muro con sopra una scritta diventa indecoroso, questo accade perché rischia di togliere valore al palazzo di cui fa parte, mentre nell’ottica del capitalismo neoliberista è «decoroso avere cartelli pubblicitari ovunque, anche dove disturbano uno scorcio artistico, o interrompono la continuità di un palazzo storico», come scrive nell’introduzione del suo volume Cegna (testo che ricorre nell’ampia bibliografia consultabile nella conclusione del volume) –; riducendo il discorso al binomio di legale e illegale, tutto ciò che non porta ricchezza, nella realtà che implica, è indecoroso, mentre tutto ciò che la genera è ben accetto. 

La tag è «il seme da cui nasce tutto», che coniuga tecnica, velocità di esecuzione, e da cui derivano i throw–up – i pezzi bicolori «che riducono le lettere della tag a solo due o tre» – , senza mai dimenticare il contesto, e quindi la necessità di svolgere nel più breve tempo possibile il lavoro – e i luoghi dove questi vengono realizzati: «ed è per questo che certuni danno più considerazione a un bomber che riempie la città di throw–up in posti assurdi che a un raffinato artista che fa pezzi complicatissimi in una hall of fame» –;e per questo motivo non ci sarebbero nemmeno i graffiti multicolori, le opere stilizzate commissionate dalle Fondazioni bramose di capitalizzare sui nomi dei più noti, di depredare ogni opera staccandola dal suo luogo originario per musealizzarla, spesso all’insaputa dell’artista stesso – il caso di Blu è emblematico, street artist che, a Bologna, in previsione di una esposizione finanziata dalla Fondazione Genus Bononiae, ha cancellato tutti i suoi pezzi in giro per la città, incluso quello più famoso realizzato sul muro di XM24, come ampiamente documenta l’autore nel testo, avvalendosi di una delle fonti più autorevoli sul tema, il collettivo di scrittori Wu Ming in un bell’articolo apparso su Giap e citato ampiamente da Santoni –.

La teoria delle finestre rotte, come ha ben spiegato Wolf Bukowski nel suo fondamentale La buona educazione degli oppressi (Alegre, 2019), mostra come a contare sia più la percezione delle cose che i fatti effettivi, per cui negli anni – già sviluppatasi dagli anni Settanta, per poi affermarsi con Ronald Reagan –, si è affermato sempre di più un modello di ordine pubblico che soddisfa questa esigenza di sicurezza a tutti i costi, riversando in questo modo sui piccoli illeciti, a volte ricreati ad hoc per essere consegnati alla stampa (un po’ come viene mostrato in un altro grande classico del cinema italiano: Sbatti il mostro in prima pagina, ambientato negli anni del terrorismo stragista)  – basti pensare al Decreto Minniti del 2017, poi trasformato in legge l’anno successivo, che equipara il concetto di sicurezza a quello di decoro: un  contenitore attinto dalla terminologia militare, che rimanda all’eroe decorato, o alla degradazione di un ufficiale  – la responsabilità del disordine, invece che perseguire i crimini cosiddetti più complessi, quelli dei colletti bianchi.
Un esempio in questa direzione, citato nel testo di Santoni, è quello di Geco. Street artist romano arrestato nel 2020 nel giubilo compiaciuto dei quotidiani della destra italiana. Santoni, citando Valerio Mattioli, eleva Geco al rango del «più importante artista romani dai tempi di BERNINI», capace con la sua arte di mappare la psicogeografia della sua città, imprimendo il proprio marchio ovunque (perché è un’onda che dilaga, e non si può fermare!), realizzando un’opera «talmente ciclopica, titanica, sovrumana, da tramutarsi in puro atto magico, capace per giunta di alterare i caratteri di un’intera città, ormai inscindibile dalla sua presenza». 

Nella maggioranza dei casi, gli atti repressivi o di pulizia dei muri – come il caso di Retake Roma, dove le “spugnette” finiscono per cancellare la storica scritta “NÉ PUBBLICO NÉ PRIVATO: COMUNE”, o a Milano, dove i “cancellatori” con il pretesto del decoro, in occasione dell’EXPO, finiscono per eliminare ogni scritta contro la grande fiera – rivelano tutta l’ignoranza degli amministratori delle città: basti su tutti ricordare la copertura con la pittura gialla,  da parte di un inconsapevole addetto dell’ufficio per il decoro urbano del comune di Roma, della celebre scritta “Vota Garibaldi Lista N.1”, tracciata nel ’48, nei pressi della Garbatella. «Auspicano la cancellazione di tutto tranne che delle scritte storiche», scrive Wolf Bukowski, «dimenticando che esse, prima di diventare storiche, erano scritte e basta – proprio quelle di cui oggi promuovono la cancellazione».  

Senza mai abdicare alla sua natura squisitamente letteraria, il testo di Santoni – accompagnato da una splendida carrellata di fotografie di opere attinte dalla variopinta galassia della street art – alterna i dialoghi più serrati, in cui si fa tanto name dropping come nella migliore tradizione postmoderna, a sequenze di azione pura per introdurci negli aspetti più tecnici che vengono spiegati con estrema precisione, rendendo il libro accessibile sia ai profani che godibile per gli addetti ai lavori. Come quando Cristiana, raggiunta l’amica Chiamaka, si ritrova a Londra e fa la conoscenza di K3 e Frame, due giovani writer che cacciano le bombole fuori per realizzare «un FRAME in block letters, grigio su nero, accanto un K3 più morbido, a mo’ di nuvolette, con accanto un accenno di pupe, una specie di fantasmino»; ma Cristiana deve fare presto i conti con un mondo in continua trasformazione, già cambiato radicalmente rispetto agli anni delle sue prime tag, infatti i due, dopo aver realizzato il loro pezzo ancora fresco si mettono a cancellare tutto istantaneamente, per immortalarlo in uno scatto di perpetua memoria, perché ormai esiste una vandal squad che, nella metro di Londra, riesce a tracciarti dal nome, risalendo alla tua persona, e ti sfondano la casa per arrestarti, e di conseguenza non ti resta che, una volta concluso il pezzo, fotografarlo e cancellarlo immediatamente. Vivrà in quell’archivio sociale spontaneo che rappresentano i graffiti, ma solamente online.  

Altro tema portante del libro riguarda il rapporto che si instaura tra l’arte commissionata e quella spontanea, senza intermediazioni commerciali di sorta, dalle strade alle gallerie – come non pensare ai nomi di Basquiat, conosciuto come writer con il nome di SAMO©, pseudonimo con cui taggava assieme ad Al Diaz, o di Keith Haring –. Torna alla mente il caso di Brad Downey, quando venne ingaggiato da un grande magazzino a Berlino per fargli la facciata, e come risposta l’artista spruzzò a casaccio un estintore caricato a vernice verde, sostenendo che il suo intervento artistico consistesse proprio in quello! Dopo essere stato denunciato, vinse la causa, anticipando alcune delle azioni di contestazione pubblica promosse da movimenti come Just Stop Oil per il clima.  O Keith Haring, quando venne invitato a Roma nel 1992 da Francesca Alinovi – pioniera dei galleristi che, in Italia, seppe valorizzare la street art proiettandola in contesti ufficiali, organizzando la mostra Telepazzia nel 1982 a Bologna, prima manifestazione pubblica sui graffiti –, e lasciò una sua opera nelle mura del Palazzo delle Esposizioni, ma il sindaco di allora, Carraro, pretese la “ripulitura” del pezzo; non paghi, la giunta Rutelli cancellerà l’altra opera realizzata da Haring sulle paratie trasparenti del ponte sul Tevere della Metro A.

Una sequela infinita di fatti che ci porta a trarre alcune conclusioni sul rapporto che intercorre tra l’arte contemporanea, intesa in un senso più ampio – oltre i confini delle categorie, sempre più strette per imbrigliare un movimento inarrestabile e «dinamico, frastagliato, a vari gradi di radicali senza confini tracciabili», parole che Santoni utilizzava per raccontare il mondo dei raver, è che si rivelano appropriatissime anche per quello dei writer (ennesima prova del filo conduttore che lega queste tre opere, apparentemente diverse tra loro, ma accomunate dalla stessa natura spontanea e critica delle origini di questi movimenti), che non distingue più tra un Bacon e un Bansky, un Basquiat o un Lucien Freud –, e che, guidati dalla prosa torrenziale e ispirata di Santoni, ci consente di sovvertire ogni narrazione consolidata sul decoro, sulle tag come vandalismo, sulla degenerazione a cui la società del controllo sta andando incontro attraverso una serie di dispositivi sempre più invasivi per gli artisti che si muovono nel terreno dell’illegalità. 

Come nel caso dei muri di separazione eretti nella West Bank, o al confine degli Stati Uniti con il Messico, «lo stato penale che si sostituisce allo stato sociale», dimostra come ogni elemento che può sembrare isolato dal contesto, rivela la sua natura intimamente politica: perché nulla sfugge al potere, tantomeno l’arte, e ancora di più quando dilaga negli angoli delle strade, rompendo l’equilibrio ordinario degli eventi, squarciando il normato con l’imprevedibile: e così gli scheletri di Harald Naegeli sui muri di una chiesa del dodicesimo secolo sono atti sovversivi, perché creativi, dunque politici; e Kilroy Was here – celebre firma che i soldati americani lasciavano ovunque, l’omino che guarda da dietro al muro – potrebbe riportare alla mente l’universalità dell’io individuale che coincide con quello più profondo di un inconscio collettivo – come scriveva Federico Fellini, riferendosi all’atto creativo degli artisti che elaborano, organizzandolo con il loro talento, il contenuto dell’inconscio collettivo, «esprimendoli, rivelandoli sulla pagina, sulla tela, o sullo schermo», e, aggiungiamo noi, sopra un muro, o un vagone abbandonato o in attività della stazione –.
E ancora, un romanzo che vuole rendere omaggio a chi ha fatto la storia di questa immensa controcultura, come Phase 2 e Tracy 168.

 

Di Omar Suboh

2 risposte a “Le strade parlano: Dilaga ovunque e l’onda anomala di Vanni Santoni (di Omar Suboh)”

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